Danilo Maestosi
Al Palazzo dei Congressi di Roma

Cinema allo specchio

Un film intrigante di Gianluigi Toccafondo, quasi un tiramolla tra il cinema e la sua presa sulla società, ha aperto il festival "Videocittà": una rassegna dedicata a riflettere sui caratteri dell'immaginario senza porre barriere tra le arti

Comincia a piovere proprio mentre sulla gigantesca facciata del palazzo dei Congressi dell’Eur scorrono le prime immagini. Il rito del vernissage si è già in parte consumato con il buffet imbandito sulla grande terrazza dell’arena all’aperto. Una festa esclusiva ad inviti riservata ad un pubblico di politici, vip e addetti ai lavori, che non garantisce troppa resistenza ai disagi. Qualcuno, certo, abbandona. Ma la platea non si svuota. Un po’ la presenza di una truppa di giovani che tengono duro e danno l’esempio. Un po’ la calamita stessa della pioggia, che viene giù a tratti, senza precipitare in tempesta: quei filari di gocce che solcano il cielo tra i fasci dei riflettori sembrano un controcanto alla danza di segni e figure che scorre sullo schermo. Ma a tenerci tutti lì inchiodati su quelle panche di pietra scomode e bagnate è soprattutto la qualità e l’intensità dello spettacolo, moltiplicate da una colonna sonora dal vivo che sembra finire e poi si riaccende assecondando il ritmo vertiginoso e incalzante del mosaico di trasformazioni, dell’esplosione di segni, colori, cui stiamo assistendo.

Cinquattaquattro minuti di visione firmati da Gianluigi Toccafondo. Nato a San Marino, cinquantasei anni, artista, illustratore, filmaker, pioniere dell’animazione, presenta qui una performance visiva con la quale rimonta, ricuce insieme i lavori e i corti che hanno costellato la sua prestigiosa carriera e le apparizioni sulle più importanti ribalte internazionali del contemporaneo. Una dosata miscela di immagini e spezzoni di cinema che si trasformano in segni e tracce cromatiche e poi ripercorrono il cammino inverso, sommergendoci di emozioni, apparizioni, sparizioni, sorprese.

Una scoppiettante apertura per il festival Videocittà, ideato da Francesco Rutelli, nella sua veste di presidente dell’Anica, la confindustria del cinema. Manifestazione giunta alla sua quarta edizione, incorniciata da un titolo fin troppo sbrigativo, ma sorretta da un manifesto di intenti davvero intrigante: esplorare – con occhio molto attento ai mutamenti di linguaggi delle nuove tecnologie – i territori di confine e attraversamento tra tutte le arti della comunicazione e dello spettacolo, evidenziando le trasformazioni degli orizzonti dell’estetica e del gusto, le modificazioni sociali e le ricadute economiche che possono dischiudere. Con un doppio sguardo all’utile e al bello che è la strada su cui il cinema, arte di narrazione collettiva per antonomasia, ha raggiunto il suo successo. Continuando a mantenere nonostante la crisi la sua identità e la presa su un proprio pubblico. E a costruire, difendere e aggiornare come un valore aggiunto un proprio inscalfibile Pantheon di glorie e di memorie aprendosi alla sperimentazione e alla contaminazione senza precipitare nella tentazione autoreferenziale e suicida delle arti visive di oggi che agonizzano nell’incertezza del proprio destino e nelle ricorrenti profezie di morte delle avanguardie.

A questo Pantheon di divi ed eroi rende appunto omaggio il lavoro di Gianluigi Toccafondo: Partire dalla coda. Il riferimento alla coda è racchiuso nelle prime immagini: uno sfarfallio di ombre e figure che simula l’ultimo guizzo di una pellicola, il nastro del filmato che si srotola, l’irruzione di luce e di cifre impresse sulla celluloide che irrompe a liberarlo dalla schiavitù del rullo mentre scorrono gli elenchi dei primattori, delle comparse e dei tecnici. Toccafondo lo usa come una incubatrice di graffiature e macchie in bianco e nero da cui spuntano frame di volti e corpi di protagonisti del grande schermo. Prima i maestri del muto: Buster Keaton e Charlot. Poi quelli degli anni quaranta e cinquanta. Nomi, sagome, maschere, scene retrò inconfondibili che si fanno riconoscere ma subito si trasformano in segni che assumono una propria vita. Il cinema che genera pittura. E viene inseguito dalla pittura per riprendere forma. Profili che si assottigliano in graffi, sbaffi di matite, pennellate. Un mosaico di possibilità e di altrove che subito riprende corpo in una diversa apparenza: l’ala di un uccello che s’invola, il muso d’un maiale, uno stormire di foglie, uno sprofondare nell’acqua che si increspa in un abbraccio amoroso di corpi. Esperienza davvero preziosa esser guidati in un continuo alternarsi di figurazione e astrazione a sperimentare come siano sterili e fuorvianti queste strutture concettuali con cui continuiamo a ingabbiare e valutare la storia delle arti visive.

Un’invasione di campo che tocca anche il teatro. I volti, può essere Totò o Anna Magnani, la Loren o Jean Gabin, che si congelano in maschere, sorrisi e smorfie grottesche, le storie partoriscono altre storie in un ripetersi ciclico di gesti ed emozioni camuffate da eventi, in un accavallarsi di scene che cancella quasi i confini dei singoli lavori da cui derivano: una rielaborazione di Pinocchio, un corto sugli archetipi del criminale in fuga o in agguato, una rivisitazione del comunismo nelle terre fra Marche e Romagna, una Roma da cartolina in bilico tra incubo e sogno. E così via fino all’ultimo gioco di sguardi: dedicato ad uno dei tanti inquietanti paradossi profetici di Pasolini, l’avvento di un mondo snaturato fino a rendere indistinguibile la soglia tra la vita e la morte. Indimenticabile quel girotondo di bambini su un campo di periferia. Volti e corpi gioiosi che a poco a poco sono coperti e sommersi da colori cerei da fantasmi, gambe e braccia che vorticano sempre più inscheletriti fino a dissolversi.

Il cinema con la sua vocazione al movimento – ci dice in modo esemplare questa puntata d’avvio del festival bagnata dalla pioggia – è anche questo: una macchina di sogni e d’immaginario, un congegno multiplo di dispositivi, tecniche ed esperienze professionali che punta all’invisibile e lo indica come traguardo d’ispirazione ed emozione a tutte le arti.

Piove anche all’uscita. A congedarci le enormi vetrate del porticato del palazzo dei Congressi che si accendono ad accogliere un’altra fantasmagoria di immagini. Atlas Ocean data, una multivisione firmata da Francesca Michielin in collaborazione con il collettivo turco OUCHHH. Il primo colpo d’occhio è stupefacente: sembra di galleggiare tra la spuma e le oscillazioni delle onde che ci riversano addosso la loro spaventosa bellezza. Poi sono gli autori stessi a svelarci il trucco di questi effetti speciali inquadrando con la stessa perizia di prestigiatori un’impalcatura di altri segni sovrapposti che sembra evocare un palazzo in costruzione. Un artificio da algoritmo matematico. Un incanto calcolato che congela inevitabilmente l’emozione. Lo stesso pubblico che prima aveva resistito alla pioggia ora dà un’occhiata e fugge verso i parcheggi.

Il giorno dopo il cartellone prosegue con un altro richiamo forte. Un film realizzato da un gruppo di quattro creativi russi, i cognomi riassunti dall’acronimo AES+F, che le grandi ribalte internazionali hanno consacrato tra le star del contemporaneo.

Gli AES+F vengono dalla moda e dalla pubblicità e ne cavalcano con spudorato cinismo tutte le derive espressive. La crisi e i conflitti del mondo di oggi raccontati con patinato distacco all’interno di scenari di paradisi glaciali e non luoghi di popoli in transito, ricomposti come quadri viventi, panorami di un futuro che verrà, di un passato che si ripete. Le contraddizioni e le cadute, gli inganni e le tensioni sociali, le miserie, i soprusi e gli orrori del postmoderno interpretati da attori manovrati come manichini che sembrano rubati a una sfilata di moda. Distacco amplificato dal ritmo al rallentatore di pose e di gesti. Si può storcere il naso, ma le loro esibizioni destano stupore, coinvolgono la mente e lo sguardo e lasciano il segno.

Qui però non riescono a centrare l’obiettivo, presentando uno spettacolo di risulta. Rimontando cioè gli spezzoni di una messinscena di un’opera lirica curata per l’Opera di Palermo: la Turandot. La storia della principessa, ossessionata dallo stupro di una sua ava, datato dalla regia all’avvento del comunismo in Cina, che un secolo dopo, in un futuribile 2070, vendica l’oltraggio sottoponendo i suoi pretendenti ad una sfida impossibile pena la morte. Una favola, riambientata in una sorta di spietato impero matriarcale, nato dagli eccessi della cultura flagellante del #metoo.

Là al teatro Massimo le immagini in movimento degli MES+F facevano da sipario e da fondale alle spalle dei movimenti e degli interventi musicali dei cantati e del coro, manovrati da una regia esterna. Isolate dalla musica e dal teatro e portate in primo piano le stesse immagini perdono presa ed efficacia. Gli scenari risultano goffi e tirati via come cloni di plastica che non reggono la visione ravvicinata. Restano le danze al rallentatore di corpi asessuati e una parata di teste mozzate che galleggiano su corolle di fiori posticci, piegate ad assecondare un messaggio di denuncia improbabile e un finale di banalizzata utopia e imperdonabile kitsch. Lo spettacolo di partenza era molto costoso, farlo girare in questa veste rabberciata e ridotta serviva forse a far rientrare gli investimenti. Anche l’arte deve fare i conti con il mercato. Ma trasformarla in merce la snatura e le ruba l’anima. Le deturpa come un cattivo sbaffo di rossetto anche l’ironia, lo sberleffo e il sorriso.

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