Maria Rosa Tabellini
A proposito di “Canzoniere per Fabio”

Bellezza è speranza

Due volumi curati da Alessandro Fo, Daniela Gentile e Claudio Vela ripropongono tutta la produzione di Enzo Mazza, uno dei grandi (e meno celebrati) poeti del Novecento. Nei suoi versi, l'attenzione costante al dialogo: con la natura dei vivi e con quella di chi non c'è più

«Vari dolori possono vestire di nero una vita, qualche volta uno solo, di proporzioni immani, e questo è un campo in cui credo di avere appreso il possibile e l’impossibile, sempre rifiutando di chiudermi in una corazza protettiva, dentro cui sicuramente la viltà avrebbe ucciso la poesia e troncato i miei stessi giorni»: così scriveva Enzo Mazza nel 1995, a chiusura di una plaquette di versi dedicati all’amico Alceste Angelini. La sua vicenda di poeta irriducibile e di padre “interrotto” a causa della morte di un figlio era tutta concentrata in quella manciata di parole.  

Ho conosciuto (o meglio ri-conosciuto) Enzo Mazza una mattina di novembre del 2004, a Siena, in un’aula del Palazzo di San Galgano allora sede della Facoltà di Lettere: per la prima volta le poesie di Mazza erano argomento di una tesi di laurea. La sala, non ampia, era gremita. Trovai posto proprio dietro a Enzo, identificabile dalla caratteristica capigliatura folta che già avevo notata in certe fotografie private, con le tracce del colore giovanile non ancora completamente smorzate nel grigio, e ancor più dalla presenza di due “angeli” a custodirlo ai lati: la moglie e «l’altro figlio». Enzo era già allora entrato in quella condizione da lui definita «al riparo dalla vita senza che definitivamente sia entrata nella morte» (così nella nota conclusiva ai Frammenti postumi), e io riflettevo su quel piccolo gruppo familiare, per sempre segnato dalla mancanza: la mancanza del primogenito morto in un fatale incidente di moto non ancora sedicenne («I tuoi sedici anni che non compi / oggi, li ho tutti nella mano», Sonetto V), e poi della vita stessa che lentamente scemava nel padre, minacciato com’era dalla ineluttabile progressione dell’oblio che la malattia d’Alzheimer comporta.

Riconosciuto, dicevo: perché già sapevo la vicenda dolorosa di Enzo Mazza e la sua esistenza appartata ai limiti dell’isolamento, che solo si apriva a una rosa di pochissimi sodali. Soprattutto, già avevo letto le sue poesie, distribuite in una serie di libriccini raffinati fin nella veste tipografica, con piccoli disegni schizzati a penna, e preziosi al tatto nella leggera rugosità delle pagine. Libriccini unici, come sanno esserlo i libri di poesie quando sono pubblicati a cura dello stesso autore o di un gruppo scelto di amici: non venali, quindi, ma stampati solo per farne dono.

Ora gran parte di quelle poesie appaiono riunite in due volumi che «’l lungo studio e ’l grande amore» di poeti e studiosi guidati da Alessandro Fo mettono a disposizione di tutti, in una confezione editoriale che riecheggia l’eleganza dei piccoli libri originari (Il canzoniere per Fabio e altre poesie, a cura di Alessandro Fo, Daniela Gentile e Claudio Vela, con uno scritto di Alice Borgna, Betti editrice, due volumi inseparabili, 640 pagine, 45 Euro).

Mi chiedo se Enzo Mazza, restio com’era a ogni tipo di notorietà, sarebbe adesso compiaciuto della divulgazione della sua opera. E penso che, sì, pur senza troppo darlo a vedere, in quegli occhi che allora conobbi già appannati adesso brillerebbe un guizzo di gratitudine: perché altrimenti le sue poesie, affidate soltanto a quegli esili volumetti di partenza, avrebbero corso il rischio di rimanere sconosciute o irreperibili, o di finire soffocate tra i libri di maggior mole sugli scaffali di poche biblioteche. E la domanda lasciata in sospeso in una lirica di L’albero del niente, in cui, sulla scorta di Orazio, riconosceva il valore della propria poesia («Lascerò qualcosa / di non corruttibile, / ma in quali mani?»), riceve finalmente una risposta che lo avrebbe rassicurato.

Può darsi che per i più il nome di Enzo Mazza risulti inedito e le sue poesie si rivelino una inattesa scoperta, ma ci sarà anche qualcuno che sfoglierà la raccolta con la commozione di chi riconosce questi versi perché già incisi nella propria esistenza. La poesia, infatti, ha una propria vita clandestina e, come un fiume carsico, è capace di scorrere nascosta per affiorare a distanza e all’insaputa dell’autore stesso, magari in un libro fotocopiato, tra le mani di una madre anch’essa ‘interrotta’, come racconta la testimonianza sorprendente (eppur così genuina) di Alice Borgna, in appendice al secondo volume.

Il lettore che le scoprirà per la prima volta rimarrà catturato da queste liriche. Perché Mazza è un grande poeta, partecipe, se pur riservato, della comunità dei più noti poeti a lui contemporanei, cui ebbe a dedicare poesie in forma spesso di epigrammi, da Alfonso Gatto a Diego Valeri, da Sandro Penna a Pasolini, alla cui morte dedicò tre versi universali, che andrebbero scolpiti nella pietra: «La morte d’un poeta / è un cataclisma / che si avverte a distanza».

A guidare il lettore nell’incontro con Enzo Mazza è la prefazione (avvincente come un racconto) di Alessandro Fo, poeta che ha il dono rabdomantico di scoprire la grande poesia altrui anche laddove essa «fa ben poco per ‘farsi conoscere’» e la generosità non comune di spendersi per diffonderla.

Come altri grandi poeti del Novecento che scelsero di limitare il proprio spazio esistenziale entro un angulus deputato alla poesia come alla vita – penso a Pessoa o a Kavafis – anche Mazza è stato un raffinato classicista. Dalla frequentazione coi modelli antichi gli sono derivati il rigore della parola e l’eleganza mai pomposa del verso, insieme a una sorta di mestizia sfumata, o di intima premonizione di morte che fin dagli inizi si avvertiva nei suoi versi: allora quasi un tópos letterario, prima che la tragedia, incarnata nel «giustiziere / acquattato sul catrame» (Cade la voce), si abbattesse violenta e tangibile a determinare lo snodo drammatico della sua produzione.

Il vasto corpus delle poesie di Mazza è stato suddiviso dai curatori in modo da orientare la lettura proprio in funzione di tale imprescindibile snodo. Ne risultano quindi tre parti, il cui titolo è stato anch’esso assegnato a posteriori: Il nucleo familiare, Il canzoniere per Fabio, Altri versi.

Fin dalla prima parte il lettore può distinguere il carattere stilistico della scrittura di Mazza, che si esprime attraverso metri asciutti e mobili, percorsi da una fitta rete di rime irregolari, quasi a contrasto con la stabilità dei temi familiari in cui, tuttavia, già si insinuava la minaccia della perdita:

Dove corrono i piedi
leggeri dei miei figli
sull’arenile sinuoso,
infinito, non posso
essere anch’io, se non spezzato
dall’affanno, a premerne
le impronte fuggitive.
(Otia, 26)

Il rischio della perdita incombe, peraltro, anche sulla poesia stessa, cui si accompagna la percezione del filo smarrito nel «labirinto»:

[…] è una cellula d’ape
la poesia che muta
luogo, un lumicino
al sommo della strada
tante volte percorsa
[…]
Ah, come il filo hai perso
nel labirinto, il semplice
segreto di accordare
il tuo moto al perché
dell’universo.
(Otia, 6)

Una percezione che suona anch’essa come un’avvisaglia del pericolo di smarrire la traccia che lo lega al figlio e quindi alla scrittura poetica, quando, nell’ultima sezione intitolata Altri versi, l’anziano poeta, ormai avvolto nella nebbia dell’età, sentirà dileguarsi «il filo dei pensieri, / un fil di voce appena udibile» (L’ombra d’un sorriso, XXIV).

Il cuore del libro è rappresentato da Il canzoniere per Fabio, l’insieme delle nove raccolte in cui la poesia scaturisce quasi miracolosamente dalla insanabile lacerazione provocata dalla morte del figlio e si immilla in sempre nuove immagini e formulazioni, dove anche gli espedienti formali sono sorvegliatissimi: ad esempio, il reiterarsi del suono della consonante f a segnalare la presenza di Fabio anche quando non dichiaratamente evocata.

Mazza non si compiace della contemplazione ‘estetica’ del dolore, né affida alla poesia una funzione consolatoria, e neppure si illude di risarcire il figlio della vita troncata sul primo fiorire per mezzo della tenacia dei suoi versi. E nemmeno si tratta di poesia finalizzata al culto della memoria, anche se non mancano i frammenti del passato (le «inezie» infantili, i giochi, le scampagnate) e, nel presente, il persistere di abitudini ormai vuote, come posare una bottiglia d’acqua sul comodino del figlio, per la notte:

Non dimenticherò vicino al letto
la tua bottiglia d’acqua.
Voglio ancora riempirtela, se mai
non fosse ininterrotto il sonno.
(La penombra e i riflessi, XV)

Il canzoniere per Fabio è costellato soprattutto di istanti epifanici, per quanto illusori o fantasticati, talvolta evocati attraverso il tópos classico del fiore reciso dall’aratro che ora acquista una nuova, mesta verità:

Ti vedo ripiegato sulla mamma
senza toccarla, o fiore virgiliano
su cui passò il gran carro
[…]
(Nella calante oscurità, n. 69)

Continuo è il colloquio con Fabio, che si esprime nei modi più vari: per lettera, o in un dialogo a una voce sola, o in un appello accorato, che il figlio lo chiami al telefono e non abbia timore che si insinui qualche pedanteria di latino, nella splendida lirica n. 11 di Nella calante oscurità:

Puoi chiamarmi al mio numero,
a un altro con qualsiasi prefisso.
[…]
Non ci sarà più traccia
di malintesi, non ti citerò
un esametro. Chiamami
al numero che hai in mente,
dopo un qualsiasi prefisso.

Sempre in agguato, tuttavia, è la consapevolezza che la poesia non avrà mai tanta forza da raggiungere il figlio nella sconosciuta dimensione in cui si trova: «Nemmeno più com’eri / so di poterti chiudere nel verso» è l’amara constatazione che si legge nel sonetto VI delle Poesie per Fabio.

Il dolore di Enzo è quello privatissimo di un padre che rifiuta di essere consolato se la consolazione esige il prezzo della normalizzazione, o addirittura dell’abitudine all’assenza: 

Molti, subdolamente, mi consigliano
di non pensare ai morti. Mi vorrebbero
come un tempo, di nuovo, a un tavolo
verde, con le mie carte da giocare.
Ed io li guardo in un trasalimento
che non reprimo, stupefatto.
(In fondo al corridoio, 49)

Ci si chiede come tale oltranza del dolore sia stata vissuta dal resto della famiglia, e in particolare dal fratello minore, Gianluca. In effetti, nel canzoniere scarna è la presenza di quel «piccolo nucleo umano» che è stato impoverito dalla morte del primogenito: si tratta di figure che appaiono via via più sfocate sullo sfondo di un quadro la cui luce è proiettata su Fabio. Raro, e sempre velato dall’ombra della morte, è anche il colloquio del padre con «il figlio vivo»: «Mi chiede il figlio vivo / se i morti si risvegliano, / dove sono, se vivono, / perché non li vediamo» (Colloquio). Tale è la verità consegnata alla poesia; quale sia stata la vita reale della famiglia Mazza rimane al di là di quella soglia che al lettore non è permesso varcare.

Il dipanarsi delle poesie intorno al tema dominante della morte della persona amata richiama senza dubbio il Canzoniere di Petrarca, talora esplicitamente echeggiato: «Ora che m’avvicino al giorno estremo», ad esempio, è una citazione quasi ad verbum dell’attacco del sonetto 32 di Petrarca («Quanto più m’avvicino al giorno estremo»). Ed è ugualmente tenace la tensione verso una bellezza che sublima e, allo stesso tempo, coincide con il trauma.  D’altronde, non mancano nella poesia italiana poesie o cicli dedicati al motivo della “morte del figlio”. Ma la voce di Mazza ha qualcosa di originale che incanta il lettore nonostante la sofferenza intessuta nei versi. Perché non c’è segno di protesta cupa, né di dolore esibito, né, tanto meno, di quella voluptas dolendi che genera il sospetto di una eccessiva letterarietà in certe liriche di Petrarca. C’è invece il sortilegio, forse sognato o forse evocato dal pensiero costante, del figlio che potrebbe palesarsi in «un ilare segnale»: in uno schiocco di dita o in un alito di vento che faccia volgere da sé la pagina di un libro, come si legge nell’epigramma 80 di Nella calante oscurità.

    Nell’abitudine al colloquio col figlio, Mazza non esclude neppure il rimprovero:

Non ch’io infinite volte
a te non mi rivolga per sommesse,
rampogne, che tu sia sparito
parendomi dagli occhi della mente.
(L’ombra d’un sorriso, 1)

Enzo non attinge al sollievo che la fede (forse) potrebbe offrire: «Non ho la Bibbia / sul comodino, né i Vangeli» dice nella lirica Colloquio. E tuttavia talora si insinua l’ipotesi di un incontro, concesso come un istante privilegiato («non dubito / di averti visto contro la parete / per un istante immisurabile», 33 poesie per Fabio, XXI), e nel procedere del tempo si fa strada la fantasia di un ‘oltre’ declinato in varie forme per essere poi puntualmente smentito, mentre l’immagine di Fabio diviene sempre più stilizzata e luminosa, fino a trasformarsi in una specie di angelo assorto nella lontananza di «un vortice dorato» (L’ombra d’un sorriso, XXIV) o di un dantesco «fiammeggiante stuolo» (Frammenti postumi, XIX). Si tratta, comunque, di fantasie che sembrano risalire piuttosto a radici classiche, forse a una sotterranea memoria di Platone, il quale, nel Simposio, suggeriva come doloris medicina la speranza che alla fine ci sia dato di contemplare «la mirabile bellezza essenziale». Sicché, ora che anche Enzo ha guadato la corrente del Lete, mi piace pensare che sia giunto ad ammirare, assieme a suo figlio, la bellezza essenziale: comunque essa si palesi.

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