Alberto Fraccacreta
L'estate del nostro scontento?/10

Salto nell’apocalisse

«Se nell’esistenza di tutti i giorni riuscissimo a "diminuire” noi stessi in favore dell'altro, daremmo sempre la vita per i nostri amici. In senso lato e in senso letterale. Dando forse sollievo all’umanità post-apocalittica, gettando acqua sulla piromania ontologica e concreta»

Un’estate con molto vento, un phon continuo e pericoloso, i cui congegni elettrici possono saltare da un momento all’altro. La gloriosa Riserva Dannunziana, la pineta di Pescara, alcuni lidi e parecchie case — tra cui un piccolo monastero — sono stati danneggiati da un incendio, da cupe e alte fiamme: lapilli e fumo ovunque. È servito l’intervento di due elicotteri e un Canadair. I testimoni oculari hanno parlato di una «scena apocalittica». Alessio Ribaudo sul Corriere della Sera ha scritto: «Ci sono stati anche gesti di eroismo delle forze dell’Ordine. Un poliziotto ha salvato un’anziana, in sedia a rotelle, che si trovava da sola in casa mentre l’incendio avanzava pericolosamente; un’altra pattuglia ha sottratto dalle fiamme una bimba di cinque anni all’interno di uno stabilimento balneare attaccato dal fuoco». Qualcuno ha suggerito (suggerimento presto confermato dalla dinamica dell’incidente) che il disastro è da attribuire a «piromani», dati gli attacchi congiunti in diverse parti dell’Abruzzo e d’Italia…

Incendi, virus, profonde variazioni ambientali. Siamo dentro l’Apocalisse o appena fuori? La visionarietà di McCarthy (La Strada), DeLillo (Il silenzio) e Lethem (L’arresto) non sembra così tanto visionaria, tutt’altro: pieno realismo. Il post-apocalittico è forse il nuovo realismo.

Cosa ci aspetta non in un ipotetico futuro, ma a settembre? È meglio non chiederselo. Che ne è stato intanto dei cardellini, dei rigogoli, dei rampichini della pineta? E il giunco nero, il camedrio, la smilace sono ancora lì fermi e piantati? La Riserva è ferita. La selva è bruciata. Trenta sono state le persone intossicate e sale a ottocento il numero degli sfollati. Dal litorale sud di Francavilla al Mare si poteva vedere una densa, sulfurea nuvola salire, salire e poi roteare lungo la costa… Alla fine è rimasto un tramonto arancione con lembi cobalto a incornare il paesaggio, a spazzare la cenere. Ma al mattino è toccato fare i conti con la dissoluzione di uno spazio verde incantevole, i «danni incalcolabili».

Mentre accadeva tutto questo, più o meno alla stessa ora, nel confort di case climatizzate, ci è capitato di essere testimoni dei dieci minuti più emozionanti della storia sportiva italiana (assieme ad altri). Prima Gianmarco Tamberi, i suoi salti e la splendida amicizia con Mutaz Essa Barshim: cosa ci può essere di più bello alle Olimpiadi di un oro condiviso? Sembra che il dialogo con il giudice di gara sia andato all’incirca così:

— Potete continuare con il salto di spareggio, asserisce il giudice.
— Possiamo avere due ori?, domanda Barshim.
— È possibile, dipende se decidete di essere entrambi campioni.
(a Gimbo) Andiamo a fare la storia insieme, fratello.

Ci dovrebbero essere più ori condivisi nello sport. Anzi, la vittoria dovrebbe essere sempre una vicenda di condivisione, di fratellanza con l’avversario, di due che si fanno uno. Bravi, ragazzi!

Arriviamo ora ai cento metri vinti da Marcell Jacobs. Essere in finale pareva già un gran risultato. (Essere in finale con il terzo tempo peraltro, 9,84, a un centesimo dai primi.) Poi è accaduto l’inaudito. Marcell fa un’ottima partenza, alza il busto con un gesto tecnicamente perfetto, le braccia si muovono elegantemente disegnando arabeschi a mezz’aria simili all’Uomo vitruviano di Leonardo, è in vantaggio quasi dall’inizio alla fine. Tempo (che ormai tutti conoscono): 9,80, record europeo. Un centesimo in meno dei 9,81 di Bolt all’Olimpiade di Rio 2016. Sono numeri magici.

Riavvolgiamo per un attimo il nastro su quanto accaduto tra Barshim e Tamberi. Il quale ha detto: «Nessuno dei due voleva togliere all’altro la gioia della vittoria». Ora, ex abrupto, togliamo pure il complemento di specificazione, utile a fini cronachistici, ma non a quelli semantici. «Nessuno dei due voleva togliere all’altro la gioia». Non è necessario infatti che la gioia sia la gioia della vittoria. La gioia è gioia, e basta. Non ha specificazioni di sorta. O meglio: se le ha, sono soltanto esornative rispetto al contenuto di quanto si vuole dire. La cosa importante è che nessuno mai ci tolga la gioia. Mi sono tornate alla mente le parole di Gv 15, 9-11. «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore». E infine la puntualizzazione decisiva: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».

La gioia è rimanere. E i ragazzi, Tamberi e Barshim, sono rimasti. Nella loro amicizia. E non si sono tolti l’un con l’altro la gioia per lo sciocco desiderio di prevalere. Infatti, i versetti successivi di Gv 15 (12-13) capitano a fagiolo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Hanno avuto amore e la loro gioia era piena perché hanno dato parte della loro vittoria all’altro. Hanno partecipato. Si sono diminuiti per far spazio.

Ecco. Se nell’esistenza di tutti i giorni operassimo questa diminuzione, noi daremmo sempre la vita per i nostri amici. In senso lato e in senso letterale. Dando forse sollievo all’umanità post-apocalittica, gettando acqua sulla piromania ontologica e concreta. Il vento, intanto, si è placato, l’aria è raffreddata (di poco). Elicotteri a bassa quota passano ancora con i loro infrangimenti della barriera del suono. La barriera di noi stessi.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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