Gianni Cerasuolo
Piedi per aria

L’Italia in 10 minuti

Elogio di Jacobs e Tamberi e dei ragazzi semplici e anonimi degli sport meno in vetrina. Gente comune, della porta accanto: uomini e donne che faticano, 6 o 7 ore al giorno di allenamento, spesso in orari che non intralcino il lavoro o lo studio. Laureati, impiegati, studenti, disoccupati: gente che incontri per strada

Jacobs e Tamberi che si avvinghiano sotto il tricolore come fosse una capannella ricordano Mancini e Vialli che si abbracciavano e piangevano dopo la vittoria di Wembley. Non sono Fiona May, ma anche io mi sono messo ad urlare ad ogni salto di Gimbo, quel «seeee…» gridato che fa sobbalzare il mio carissimo cane ogni volta che il Napoli fa gol. Nei novi secondi di corsa di Jacobs non ce n’è stato bisogno: partenza perfetta, in testa da subito o quasi, «è primo, è primo», ho continuato a gridare verso chi mi stava vicino in quei 100 metri che fanno cronaca e storia, quella minima, quella dello sport.

Siamo tutti esperti, tutti atleti, tutti campioni, tutti allenatori. Si fa presto a dire vince o perde, sbracati sul divano con un po’ di rosso di Montalcino nelle vene. Sabato avevo visto mezza partita del Napoli a Monaco, mezza perché Sky non mi faceva vedere l’amichevole con il Bayern, una cosa che solo un matto tifoso come me può concepire, una cosa che non s’ha da vedere a fine luglio con squadre che non sono ancora squadre, i muscoli appena imbastiti, il mercato, i procuratori che ricattano, insomma un film horror. Eppure m’ero arrabbiato: 9,99 euro, signori di Sky, perché non me la fate vedere questa cavolo di partita. Forse perché non sono a Roma ma in Toscana nella mia seconda casa (non ne ho altre, eh…) e qui, sulle colline amiatine, pure per vedere RaiUno a volte si fanno i salti mortali. Il telefono mi dirotta in Albania, la signora con difficoltà a parlare l’italiano (ed io figuratevi con l’albanese ma anche con l’inglese) capisco che ci sono problemi tecnici, che la partita non la trasmettono. Mah, strano. Dopo un po’ rifaccio il numero ma cambio l’ultimo numero in cui mi indirizza il disco registrato che mi tiene mezz’ora a spiegarmi le meraviglie della prossima stagione calcistica che ha messo in mutande Sky. Nel frattempo, il primo tempo sta quasi per finire. Finalmente risponde un signore che tomo tomo cacchio cacchio mi dice: come, non vede la partita? Aspetti un attimo: et voilà, ecco Osimhen che si mangia un gol di testa. Non solo ma il signore, lavoratore di Sky mi offre gratis anche la prossima amichevole del Napoli, visto che non sono riuscito a vedere mezza partita. Chissà.

La Rai è gratis, si fa per dire. Puoi anche spegnere l’audio come faccio spesso la mattina quando ci sono le gare di tuffi, o di tiro con l’arco, o i piattelli. Perdonatemi, ma la freccia che centra il 10 non mi fa sobbalzare dalla sedia, il piattello che si sgretola dopo il pum pum mi lascia come lo stoccafisso in bianco con olio e limone.

Io vado cercando la nazionale di basket, quella di pallavolo maschietti e quella di Paola Egonu. Vado a caccia del punto a punto, di quello che si alza e tira da 3, di una schiacciata che buca il parquet. Di una bracciata più possente e veloce di un’altra nel nuoto, di una palombella, di una beduina, di un tiro a schizzo con il portiere che va dall’altra parte. Il carpiato no, un diretto con i guantoni sì.

Ed ora l’atletica. Avevo cominciato da sabato ad eccitarmi, ben prima del Napoli. Nonostante RaiDue. Perché Lamont Marcell Jacobs ha la cattiva idea di fare il record italiano sui 100 in batteria intorno alle ore 13. Si sa a quell’ora, cascasse il mondo, pubblicità e tg, dovesse incazzarsi Salvini. E la pubblicità, di solito a quell’ora sono pannoloni e sedie che vanno e vengono sulle ringhiere di una scala, i telefoni di Brondi con i numeri grandi grandi, tutta roba per i vecchietti pisciasotto. Ebbene Bragagna, la voce Rai dell’atletica, un racconto variopinto ma di chi conosce le cose, nemmeno finisce di urlare che il poliziotto yankee-bresciano è in semifinale, che gli tolgono la linea. Pubblicità e poi il Tg che riprende un po’ con Tokyo, un po’ con la riforma della giustizia penale della Cartabia, e dai la linea a Tokyo e ridiamo la linea allo studio, zitti, ora c’è l’intervista a Marcell. Due volte annunciata, due volte la registrazione non parte. Al terzo tentativo ce la fanno. Roba che Blob ci va avanti per un mese.  

E domenica mattina, il primo giorno di agosto, ancora lì davanti al televisore. Tamberi, Tortu e Jacobs. Primi salti e semifinali dei 100. C’è qualcosa nell’aria. Certe cose si sentono, si annusano. Tre settimane fa era successo con la nazionale di Mancini. Non capisco granché di atletica, negli ultimi anni l’avevo anche abbandonata come spettatore. Però questi due ti calamitano davanti allo scatolone. Infatti, RaiDue sente l’aria che tira e manda in onda il Tg alle 13 riducendo la gara di salto in alto ad un quadratino, salvo ad allargare l’immagine quando salta Gimbo, perché c’è da mandare in onda un’intervista a Salvini. Vuoi mettere. Vuoi mettere con un record mondiale del triplo femminile che abbiamo goduto a spizzichi e bocconi, un salto che non si vedeva da ventisei anni (15,67 della venezuelana Rojas)?

Alle 14,40 Bragagna, come Nando Martellini (campioni del mondo, campioni del mondo), come Marco Civoli (il cielo è azzurro sopra Berlino), come Caressa (grazie Signore che ci hai dato il calcio), no, Caressa no, può sgolarsi: «Oro oro» dopo che Tamberi e Barshin, il suo avversario, hanno deciso che la gara finiva lì: oro per tutti e due e basta alzare l’asticella. Si sono guardati, Barshin con i suoi occhiali scuri scuri, Gimbo che lo guardava e aspettava, poi si sono dati il cinque, e poi l’abbraccio, le lacrime. E quel gesso del maledetto infortunio di Montecarlo messo sulla pista, il cattivo compagno dell’incidente, lesione ad un legamento della caviglia, che aveva impedito a Tamberi di partecipare ai Giochi di Rio. Sul quel moncone di gesso che gli aveva stretto la caviglia aveva scritto, ormai lo sapete: «Road to Tokyo 2020…». Ha dovuto aspettare un altro anno.

Dieci minuti dopo, l’impresa di Jacobs. Cinque anni dopo Bolt. Quanti da Berruti e Mennea? Lo so erano i 200 metri. Ma sempre un soffio sono. Soffia il petto anche Malagò, dopo questa giornata finalmente di festa dell’atletica, che raddrizza le cose in casa Italia dove sono mancate medaglie d’oro quasi certe e sono sbucate tante medaglie di bronzo. Per una notte (italiana) siamo rientrati tra i primi dieci. Il presidente del Coni si gonfia.

Non sento caroselli, fa molto caldo, questi qui non hanno la vetrina del calcio. Meno male, almeno non ci saranno altri contagi. Uno ama questi ragazzi semplici e anonimi anche perché sono gente comune, gente della porta accanto. Uomini e donne che faticano, 6 o 7 ore al giorno di allenamento, spesso in orari che non intralcino il lavoro o lo studio, che hanno nelle famiglie il loro riparo, meglio di qualunque mental coach. Laureati, impiegati, studenti, disoccupati. Gente che incontri per strada. Non solo divine e personaggi da talk show. Perché decidere di dare cazzotti in palestra a Torre Annunziata ed essendo donna, significa fare una scelta faticosa, significativa. Come spostare una montagna. La ragazza sarda del canotaggio che nel momento della gloria dedica la sua piccola, grande medaglia alla rinascita della sua terra che in quei giorni brucia e va in malora ti fa capire che va apprezzata oltre quella gara. E la tiratrice d’arco che saluta la sua compagna olandese ti dice che finalmente questa è una cosa che non fa più notizia. Donne, evviva.

Questo è un mondo normale. A volte eroico, resistente. Via la retorica, per favore. Segnali di un Paese che forse cambia. Certo, poi per vincere più ori e più medaglie servono scelte politiche, organizzative, occorre la ricerca e la scuola, l’università. Meglio non pensarci.

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