Giuliano Compagno
L'estate del nostro scontento?/9

Leopoli, solo andata

«Atterro a Lviv che nel frattempo è già risorta ed è primo pomeriggio. Ero in cerca di quell’Altrove che Bernhard avvertiva nel suo muoversi verso un luogo prescelto...»

Ci sono versi a chiudere che aprono le porte dell’esperienza. Come questi di Vittorio Sereni:
Tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio.
Stringo una spalla d’aria.

All’uscita dall’ultima galleria il sole non ferisce più. Quando ciò accade, l’inciso di un altro rigo annuncia che un uscio “si è aperto altrove”. Per mio errore avevo attribuito una certa frase a Rilke, invece era di Thomas Bernhard, questa: “Vorrei sempre essere altrove, dove non sono, nel luogo dal quale sono or ora fuggito. Solo nel tragitto tra il luogo che ho appena lasciato e quello dove sto andando io sono felice.”

Venti giorni fa, in aereo, stavo conversando con il parroco di una chiesetta a rione Monti che mi era capitato vicino di poltrona. Mi diceva che da sempre loro ucraini hanno posto la fede al riparo da tutti, in una sfera dell’intimità tanto nascosta che neanche la repressione sovietica era riuscita a violare.

Holomodor (Голодомор) vuol dire procurare morte per fame. A questo termine è associata la sorte di almeno tre milioni di ucraini, sterminati durante il biennio 1932-33 a seguito del rifiuto, da parte dei contadini, di rendere le loro terre ai kolckoz.

“Per eliminare i kulaki come classe non è sufficiente la politica di limitazione e di eliminazione di singoli gruppi di kulaki ma è necessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti economiche della sua esistenza e del suo sviluppo.” Josif Stalin era queste parole. A sua volta, nel novembre del 1932 Molotov, quello del patto paradossale, diede disposizioni che nei villaggi si rendesse irreperibile il grano; non fosse bastato, ordinò la confisca di barbabietole, patate e ogni altro tipo di verdura. Tempo un mese, agli ucraini venne fatto divieto di conservare cibo e di commerciarne in alcun modo. Sarà un genocidio.

Il primo settembre del 1939 gli aerei della Wehrmacht bombardarono Leopoli (Lviv). Due settimane più tardi, col pretesto di proteggere ucraini e bielorussi, le truppe sovietiche occuparono i territori dell’attuale Ucraina occidentale. Galizia orientale e Volyn vennero trasferite alla Repubblica Socialista Sovietica; l’Europa centrale di Lviv fu seppellita in quei giorni.

Atterro a Lviv che nel frattempo è già risorta ed è primo pomeriggio. Ero in cerca di quell’Altrove che Bernhard avvertiva nel suo muoversi verso un luogo prescelto. Come a milioni di spettatori, il suo centro storico mi era apparso in alcune scene di Schindler List (qui lo sterminio ebraico conoscerà proporzioni tragiche) ma mi riaffaccio e mi accorgo che le strade non riflettono neanche l’ombra del Continente omologato. Mi perdo benissimo. In forma di omaggio ho con me due libri: Pensieri spettinati di Stanisław Jerzy Lec e Venere in pelliccia di Leopold von Sacher Masoch. Non sono immaginabili scrittori più lontani. L’uno di una sagacia tragica e insuperabile, l’altro come addormentato nei suoi desideri timidamente concepiti. Eppure entrambi hanno avuto qui i loro natali, nessuno dei due restandovi tanto da lasciare, nella loro città, una traccia. L’uno morirà a Varsavia e vi sarà interrato (irreperibile) nel cimitero militare; le spoglie dell’altro riposano invece a Mannheim, quasi a segnare i destini di un popolo e di una città che, dalla Polonia all’Unione Sovietica, passando per le bizze hitleriane, percorreranno un tragitto pesante. «Ho bisogno dell’Ucraina – diceva Hitler – altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata».

La storia ha le sue conseguenze, ad esempio che a Lviv le figure retoriche non funzionino come si potrebbe immaginare. Altrove non è solo sorprendersi nel luogo di un altro secolo ma soprattutto incantarsi dinanzi all’abbagliante cattedrale di San Giorgio come alla piccola chiesa armena, dove lascio una donazione e il custode mi regala delle immaginette e un librettino in ricordo. Altrove non è la promessa di tornarvi, è il contrario, semmai. È un punto di non ritorno. Sono ragazzi che vanno al fronte sul Donetsk senza aver mai sparato nemmeno ai palloncini di una fiera, e laggiù ci muoiono nel nome di una causa altrui. E questo me lo dice Irene, che ho incontrato all’hotel Decumani di Napoli e mi sta raccontando la sua Lviv e la loro Ucraina.  «In un villaggio hanno chiesto ai nostri psicologi se stessero lavorando con gli adolescenti: hanno risposto che di ragazzi lì non ce n’erano».

Da qualche anno, ogni estate, me ne vado Altrove per mio conto. E pochi giorni mi bastano per trovare quel che pensavo di cercare con allegrissima malinconia. Di regola, rientrato a casa, ho il cuore abitato da piccole sorprese. Però che bello! Ci sono città che ancora narrano storie d’amore tra una piazza e i suoi abitanti. Stare lì in mezzo, non essere notati. E a notte, prima di addormentarmi, risento i versi di una poesia inventata. Questa, di Adam Zagajewski:
Andare a Leopoli. Da che stazione per Leopoli,
se non in sogno all’alba, quando la rugiada
luccica su una valigia, quando i treni espressi
e i rapidi nascono. Partire in fretta
per Leopoli, di notte o di giorno, in settembre o a marzo. 
E c’era troppa Leopoli,
non ci stava nei recipienti,
faceva scoppiare i bicchieri, straripava
da stagni e laghi, fumava da ogni camino,
si mutava in fuoco, in temporale,
rideva col fulmine, diventava docile,
tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento,
dormiva sul divano accanto al tappeto dei Carpazi;
c’era troppa Leopoli e ora non ce n’è più.”

Leopoli non c’è piu. È qui, è altrove.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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