Gianni Cerasuolo
Piedi per aria

Gol al telefono

Inizia il campionato di calcio: siamo qui ancora una volta pronti a guardare, esultare, azzuffarci. Sapendo di assistere ad uno spettacolo che potrebbe essere una farsa, un qualcosa che galleggia tra le peggiori pratiche della politica e della finanza. Sappiamo tutto, ma non stacchiamo la spina

Adesso bisognerà vedere se questo benedetto streaming funzionerà davvero. L’ansia e i dubbi aumentano con il passare delle giornate e l’avvicinarsi dell’ora X, sabato 21 agosto: l’inizio del campionato di calcio, della serie A. Già l’idea di vedere una partita online, al computer o, peggio, sullo smartphone, proprio non mi va a genio. Temo l’imboscata del buffering, vale a dire il manifestarsi della rotellina sullo schermo del computer, quella che annuncia il rallentamento dei movimenti dei calciatori, il silenziarsi delle voci (ma questo non è un male), il buio e il cartello: «Siamo spiacenti, al momento non è possibile mostrare il video. Riprova tra qualche minuto…». È avvenuto già, è probabile che succeda ancora. Non mi rassicurano i cavi e le raccomandazioni che mi hanno dato: basta mettere questo spinotto qui e quest’altro là, in questo modo può vedere la partita in tv. Diavolerie moderne.

Sissignori, faremo anche questo. Noi aficionados siamo così: ci possono fare tutto, subiamo qualsiasi angheria, alla fine caliamo sempre il capo. Malati inguaribili: sì, potete dirlo. Tutto pur di vedere la palla rotolare e la nostra squadra vittoriosa. Tutto pur di emettere urla disumane tipo Fantozzi e Filini al campeggio (e senza mettere mani sulla bocca), quando i tuoi fanno gol oppure gli avversari storicamente insopportabili, detestati da una vita, ne prendono uno, di gol, meglio se su un rigore che non c’era e che l’arbitro ha fischiato senza neppure andare a vedere il Var. Le razzie mensili sul nostro conto per poter guardare ci fanno imbufalire ma finiamo per accettarle. Ci siamo anche rassegnati alle partite spalmate su tre, quattro giorni, di notte, di giorno, a pranzo e a cena. Se l’antenna o il pc funzionano così così protestiamo con l’emittente, anzi con la piattaforma, consapevoli di soccombere comunque. Da un pezzo non hai neanche più la soddisfazione di sfogarti con il povero operatore telefonico: quindi devi messaggiare, inviare, whatsappare. Roba di account e password. Ora adoriamo la banda larga, un culto pagano, una solennità religiosa più di Santa Rosalia.

Arrendetevi, voi di una certa…

Questo è il calcio. Questo è diventato il calcio. Inutile girarci attorno.

Lucilla Boari a Tokio

Non funziona nemmeno il fatto di sentirsi il fratello idiota di quello che qualche settimana fa si esaltava per i Giochi e per i suoi protagonisti, gente che in tutta la propria vita agonistica guadagna quanto gli idoli degli stadi prendono in un mese, ragazzi e ragazze che si fanno il mazzo e alla fine, spesso, non raccolgono niente. Te li ricordi ancora Nespoli e la Boari? Tinta e Banti? Conyedo e Diana Bacosi? E mi ripeti i nomi dei quattro della 4×100? Jacobs e Tortu d’accordo, troppo facile. E gli altri due? E le lacrime, le belle storie, il campione della porta accanto, la mamma badante, il papà allenatore, l’Italia multietnica, lo ius soli (shhh, zitti, non si dice)?

Torna finalmente il calcio, la palla bucata e bacata.

Intanto, lasciatemi salutare con profondo rispetto e con grande affetto il telecomando e il satellite, compagni di tante avventure, aggeggi che non servono più. Ora siamo tutti streamgati. L’incubo delle tre I berlusconiane è realtà: Inglese, Internet, Impresa (sull’ultima I avanzo molte riserve). Dopo aver foraggiato Sky per 18 anni, adesso abbiamo un nuovo e già conosciuto padrone: Dazn. Anzi due. Dazn e Tim, con quest’ultima che non ti molla un attimo e vuole rifilarti a tutti i costi il suo vision, il suo decoder. Tim te lo spedisce a casa senza che tu lo abbia richiesto, devi alzare la voce per non restare vittima del diktat e sei costretto a lasciare minacciosi avvisi al portone d’ingresso prima di andare in vacanza: non lo voglio!

Game changed, il pallone è lo stesso, tutto il resto è cambiato. È il messaggio hot che Diletta Liotta & Co. continuano a lanciare anche alla vigilia dell’Evento, come si usa dire. Dazn, la società che fa capo al Perform Group del magnate di origini ucraine ma cittadino statunitense con residenza a Londra, cioè Len Blavatnik, ha messo sul piatto 840 milioni di euro a stagione, per tre anni fino al 2024. E si è presa la Serie A. Sky ha tenuto solo tre partite, in sostanza ha abbandonato il campionato di élite, ci aveva puntato ma l’investimento si è rivelato in Italia un mezzo fallimento per l’azienda fondata da Murdoch.

Il calcio è in crisi. Da noi ma non solo da noi. Però finge di godere una ottima salute. Perché sa che alimenta una passione infinita, irrazionale, che non morirà mai. E arraffa più soldi che può. Il Covid ha soltanto spinto l’ammalato già grave in terapia intensiva.

Basta guardare il calciomercato per accorgersi di quanto la crisi sia abissale. Pochi scambi, poca “moneta” che circola. Chi ha potuto, ha venduto i migliori per fare cassa. La Juve ha preso alla fine il tormentone dell’estate, Manuel Locatelli, ma inizierà a pagarlo tra quasi due anni. Prestito gratuito per due stagioni. Siamo alle cambiali, ai pagherò. Un’assurdità contabile. Però tutto è permesso in questo mondo di furbacchioni e di vassalli. Il solito Gene Gnocchi ha fotografato così l’episodio sulla Gazzetta dello Sport: «Strepitoso effetto Locatelli per la Fiat. In milioni si sono presentati ai concessionari per avere la Panda in prestito gratuito biennale».

L’espressione “a parametro zero” – cioè prendere gratis il cartellino di un giocatore – è la frase che domina su tutte in questi ultimi giorni del calciomercato. Gli scialacquatori di ieri si travestono oggi da economi: tanto esce, tanto deve entrare. Nessuno investe, tranne gli americani. Infatti Roma e Milan, una dei Friedkin e l’altra del fondo Elliot, hanno investito e speso: la Roma addirittura oltre i 97 milioni, prima società in Italia e tra le prime cinque in Europa in questa speciale classifica di acquisti.

Non sta male soltanto la Serie A.

Leo Messi

Joan Laporta, presidente del Barcellona, ha tracciato un quadro drammatico della situazione: uno sprofondo rosso di 1482 milioni di euro. Il club catalano aveva incassato quattro anni fa, nel 2017, 222 milioni di euro dagli sceicchi del Paris Saint Germain, il costo del cartellino di Neymar, uno sproposito, ma ha sperperato ogni cosa. Dovendo soddisfare, tra l’altro, il top che fino a ieri era il simbolo della squadra: Lionel Messi. Laporta ha accusato la gestione del suo predecessore Josep Maria Bartomeu, spese folli e ambigue, arrivando a dire «che aveva preso soldi dalle banche con interessi al 9%, noi con Goldman e Sachs all’1,9%». Ma anche di commissioni ad osservatori e procuratori pagate anche 8 milioni per un acquisto da 40. E altre operazioni oscure.

È un mondo sudicio e sfrontato quello che manovra il calcio. Dieci, undici anni fa Michel Platini impose il Fair Play Finanziario per arginare lo strapotere finanziario delle società più forti economicamente e per arrestare l’ascesa nel calcio degli sceicchi e degli oligarchi dell’Est. Queste regole sono state di fatto spesso infrante, aggirate. Due società su tutte hanno continuato a ignorare qualsiasi paletto: il Paris Saint Germain e il Manchester City (ma anche altri club inglesi). L’ultimo colpo i francesi l’hanno fatto con Messi, in posa strappalacrime per l’addio alla Catalogna: preso dal Barça a saldo, il PSG pagherà all’argentino 35 milioni di euro netti a stagione. Così il club parigino assomiglierà sempre più ad un Circo Barnum, chissà se riuscirà mai ad essere una squadra. Il PSG è della Qatar Sports Investments e ha dato una mano all’Uefa e al suo presidente, l’avvocato sloveno Aleksander Ceferin, a mettere fuori gioco la Superlega che Real Madrid, Barcellona, Juve ed altre società prestigiose, comprese molte inglesi, volevano fare in alternativa ai campionati nazionali e alle coppe. Iniziativa subito abortita. Adesso pare che Ceferin abolirà il Fair Play, quasi a sdebitarsi dell’appoggio ricevuto contro i ribelli e introdurrà una serie di soluzioni rabberciate prese dallo sport professionistico americano tipo il salary cup e la luxury tax.

C’è dell’altro: il governo europeo del calcio, l’Uefa appunto, vuole creare un fondo da 7 miliardi di dollari per permettere alle società che sono indebitate di uscire dalla crisi. Chi parteciperà alle coppe potrà accedere a questo fondo. Lo ha scritto il New York Times. Un altro segnale per esorcizzare minacce di nuove scissioni, per tenere lontano qualsiasi Superlega o per realizzarla in altro modo. Il calcio come una banca d’affari, una storia del pallone che non abbiamo mai visto. Né vorremmo vedere. Questo accadrà a breve.

Il lato oscuro non della Forza ma del calcio ha negli ultimi anni un protagonista assoluto: il procuratore, il mediatore, l’agente del giocatore. Chiamatelo come vi pare. Un personaggio capace di manovrare, inzigare, ricattare. Come in ogni mestiere, ci sono fior di professionisti che lavorano onestamente. Tuttavia l’erba cattiva non muore mai. Nelle repliche estive di Report si è rivisto qualche settimana fa il servizio che il programma di Rai3 dedicò a possibili rapporti malavitosi, perlomeno molto discutibili, di certi mediatori attorno ad alcuni club di serie A. «Nel 2020, l’anno della voragine economica aperta dal Covid, – la fonte è Sebastiano Vernazza sulla “rosea” di questi giorni – le società di Serie A hanno pagato 138 milioni di commissioni agli agenti. Una enormità vista la crisi. I procuratori usano bene il loro potere. Cominciano ad esercitarlo circa due anni prima che scada il contratto di un loro assistito molto richiesto, quando si inizia a parlare di rinnovo. Un balletto di offerte, richieste, controfferte. La sabbia nella clessidra che scende e attorno al club si stringe il cappio: arrendersi all’esosità o perdere il giocatore a scadenza, in pratica “regalarlo” a un altro club, disposto ad assecondarne la volontà?». Vernazza cita il caso Donnarumma, il portierone della nazionale e già del Milan passato al PSG, le cui sorti sono state gestite da uno dei più potenti dominus tra i procuratori, Mino Raiola.

La curva B del Napoli

Il calcio resta la nostra religione laica, il nostro tempio dove poter invocare l’aiuto divino di Eupalla, pensare e vomitare cose poco educate, praticare riti contro ’a malasciorta. Il calcio è il nostro restare bambini, un po’ discoli, un po’ innocenti, un po’ bastardi. Siamo milioni. Circa 29 milioni di italiani sono interessati alla Serie A e 25 milioni tifano per un club. Riporto dati freschi freschi di una indagine demoscopica fatta da “StageUp-Ipsos” per la Gazzetta qualche giorno fa. Il Covid ha dato una bella botta: gli stadi chiusi hanno fatto segnare un -2,6% di tifosi in A, dai 25,3 milioni rilevati nel corso della stagione 2019-2020 (che pure era stata bloccata e poi ripresa a porte chiuse dopo la prima ondata della pandemia) ai 24,6 milioni dell’ultimo campionato, 700 mila tifosi in meno. Più scontati e per nulla sorprendenti mi sembrano invece i numeri sul «come tifa l’Italia»: la Juve rimane la squadra più amata ma perde per strada un po’ di gente (-7%), come il Napoli (-6%), la Fiorentina (-10%), il Torino (-12%), la Samp (-7%). Invariato – o quasi – il gradimento per le due romane. Al contrario, salgono i tifosi dell’Atalanta (+19%), del Sassuolo (+12%), del Milan (+11%), dell’Inter (+3%). I più e i meno riflettono vittorie e sconfitte durante la passata stagione.

Siamo qui, dunque, ancora una volta pronti a guardare, esultare, azzuffarci. Sapendo di assistere ad uno spettacolo che potrebbe essere una farsa, un qualcosa che galleggia tra le peggiori pratiche della politica e della finanza. Un imbroglio. Una scommessa. Una martingala. Sappiamo anche questo ma non stacchiamo la spina. Figurarsi. Ora che siamo campioni d’Europa, poi. Tante grazie, ma le nostre squadre, lo scudetto, sono un’altra cosa. Possiamo tornare anche allo stadio: i vetusti anfiteatri italici riaprono i cancelli. A metà e con mascherine. Altrove hanno incoscientemente spalancato le porte.

L’antico rito si ripete e non ha più niente di antico. C’è ancora qualcosa da salvare? Sì, la memoria ad esempio.

Il pallone può aiutare a non dimenticare. A ricordare uno come Gianni Mura che di questi tempi leggeva il pronostico del campionato nella sua Palla di lardo e non ne azzeccava uno. Non si divoravano quegli articoli – lunghi eppure mai faticosi – tanto per gli oracoli, quanto piuttosto per i personaggi, gli aggettivi, le odi civili di Gianni.

Il pallone sa ancora essere, nonostante il fetore che sprigiona, sentimento, poesia, vita quotidiana. A volte una presa di posizione. Così può accadere che dopo una rete decisiva, un giovane della Sierra Leone, Yayah Kallon, 20 anni, attaccante del Genoa (nella foto accanto al titolo), fuggito dalla sua terra e approdato in Italia su un barcone, dopo mesi e mesi di marce e lager libici, se ne esca con questa frase: «Dedico il mio gol a Gino Strada, ha fatto moltissimo per il mio Paese… Se non fossi fuggito, sarei diventato un bambino-soldato». Era uno degli abbandonati della Terra questo ragazzo. Ne abbiamo visti tanti in questa millesima estate di drammi, di fine del mondo, di burqa e di talebani.

Forza Yayah, sarò un tuo tifoso. Ma non fare gol alla mia squadra del cuore (squadra del cuore: si può dire ancora?).

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