Gianni Cerasuolo
Piedi per aria

Dal calcio a Tortu

Lo sport è fatto di sangue (non quello dell’Epo), sudore e lacrime. Quante volte abbiamo sentito in questi giorni la parola sacrificio? Evidentemente, lo sport italiano sta meglio dell’Italia, dove si muore sul lavoro e dove la saggezza conta così poco...

Ora che all’improvviso siamo i più veloci al mondo, pare che Draghi abbia corretto il suo appello del 6 agosto agli italiani: vaccinatevi, seguite le regole e fate sport. Almeno lì si vince e chissà che una corsetta o una marcetta non servano come una sorta di green pass per abbattere questo tempo di allarmi e paure, di vita e di morte.

Dopo la domenica di Tamberi e di Jacobs, dopo la doppietta nella marcia, dopo l’oro persino nel karate arrivano i quattro moschettieri della 4×100: Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Filippo Tortu. La staffetta dell’oro numero 10 dell’Italia che mai aveva vinto tanto ai Giochi, 38 medaglie (10 ori, 10 argenti e 18 bronzi) a due giornate dalla fine dei Giochi più travagliati e abbacchiati della storia.

È asciuto pazzo ’o padrone, si dice a Napoli, lo sport italiano offre imprese incredibili, storiche, leggendarie e basta così. Poi domani arriva l’inglese o l’americano e fa Don Basilio, insinua, calunnia. Ormezzano scriveva dopo Seul e Ben Johnson, «salvo doping».

L’ora esatta dava le 15.50 e 57 quando sono partiti. E le 15.51 e 36 quando Tortu si buttava sul filo di lana, poco più di 37 secondi in tutto, bruciando Blake, l’inglese che pure aveva un piccolo vantaggio all’ultimo cambio e che il sardo-brianzolo si è piano piano inghiottito. Questa medaglia è molto sua, dico di Tortu, il ragazzo era uscito maluccio dai 100 metri che avevano visto trionfare Jacobs.

Scene mai viste su una pista di atletica per noi che ancora qualche scossa la sentiamo dentro quando c’è una maglia azzurra, una maglia sofferente da sempre anche (o soprattutto?) per quello che succede fuori dai campi e dai terreni di gioco. Stiamo festeggiando da un mese, da Donnarumma a Tortu. Al punto che a furia di abbracciarci e di baciarci siamo riusciti anche a ringalluzzire Covid 19 che non gioca in nessuna squadra né partecipa alle Olimpiadi. Ma poi si baciano e si abbracciano anche in Uzbekistan e in Argentina, a Londra e a Santiago: il linguaggio universale e semplice, buonista e coinvolgente, ecumenico dello sport combina queste cose. È un mese che vediamo lacrime sparse in tv con ragazzi che hanno una medagliona (ma quanto sono grosse le patacche giapponesi?) dopo l’altro anno trascorso a versare lacrime dense e copiose ben diverse da queste qui, vedendo quei camion che portavano via vite troncate, osservando i numeri dei morti che salivano ogni giorno come una marea montante, e poi i malati, gli infetti, le terapie intensive, i respiri che mancavano.

Niente piagnistei. Ma non dimenticate in fretta quelle altre lacrime adesso che siamo qui ad elogiare i quattro dell’Ave Maria. Torneremo a cantare Nottimagiche e celebreremo uno sport o qualcosa di simile, persino uno skateboard e praticheremo il passo impossibile della marcia, basta che non siano soltanto quattro calci ad un pallone. Almeno per qualche giorno, per qualche settimana. Tanto fra poco ricomincia la giostra e ripiglieremo ad accapigliarci, io per primo, per il rigore non dato, per il Var usato strumentalmente, per i rinforzi che il patron non ha fornito alla nostra squadra del cuore.

Ma ora lo sport italiano sta meglio del calcio di serie A. Molto meglio. Se il club che ha vinto qualche mese fa lo scudetto, cioè l’Inter, deve dar via i suoi pezzi migliori e soltanto gli ingenui o i poco informati (i giornalisti innanzitutto, soprattutto quelli con la casacca nerazzurra) non si aspettavano le svendite di Lukaku e di altri come se non sapessero che i cinesi non pagavano gli stipendi ai calciatori da otto mesi. E se la prendono con Lukaku l’ingrato, il traditore, il mercenario. Viva Lukaku.

Sta messo male il calcio nostrano che non può permettersi un Messi che va via dal Barcellona, malconcio anch’esso, che si sbarazza di un grande che ha già imboccato il viale del tramonto e forse può ricominciare a ricostruire dalle fondamenta dopo tante spese folli (ma probabile che continueranno a spendere e a spandere).

Sta messo meglio lo sport italiano che saluta Valentino, lo sportivo italiano più conosciuto al mondo, il Pelè e il Maradona, il Michael Jordan del motociclismo (rubo paragoni esaltanti fatti da Umberto Zapelloni sul Foglio), uno dei tanti numeri 10 dello sport, altro che 46. Si è divertito Valentino Rossi e ci ha fatto divertire, fino a quando ha vinto. Forse poteva lasciare prima. Ma che cosa vuoi dire ad uno che a 42 anni abbandona i circuiti e per poco non si mette a piangere?

Lacrime. Lo sport è fatto di sangue (non quello dell’Epo), sudore e lacrime. Quante volte abbiamo sentito in questi giorni la parola sacrificio? Poi in fondo, ha ragione Yuri Chechi, quando dice che, insomma, basta parlare, di sacrifici, che chi si mette a volteggiare agli anelli o sculetta su una strada che per poco non ti mettono sotto, o arranca su una bicicletta, chi fa agonismo sa bene quello che gli aspetta: una vita d’inferno, rinunce, rigare diritto, una canna qualche volta ma attenzione, se ti beccano… Una gioventù che scivola via. Si vede anche sui volti delle donne e degli uomini che vincono. Felici ma esausti, stanchi, invecchiati. Nessun fighetto. Non avranno montagne di soldi, altro che ingaggi alla Messi, ora il Coni paga 180 mila euro la medaglia d’oro, una fortuna. Ma questi non aspettano quattro anni e un giorno di gloria per quei soldi. Almeno, non solo per quello.

Lo sport italiano festeggia. I quattro imprendibili, Patta, Jacobs, Desalu (Eseosa Fostine Desalu, detto Fausto, 27 anni da Casalmaggiore, origine nigeriane, rassegnatevi voi che vedete solo bianco), Tortu, ma anche Luigi Busà di Avola, karateka, uno che si mette a gridare: «Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta» appena conquistato il tetto del mondo. Ma anche la Palmisano che doppia l’oro di Stano in quel particolare camminare di corsa che non è corsa e che a noi “anta” ricorda quel fiumano triste e di poche parole, il grande Abdon Pamich, ai tempi di Beghetto e Bianchetto. Eravamo dei bimbi. La marcia, la brutta storia di Alex Schwazer, prima sporco di doping e poi ripulito, alla pari con chi gioca solo con le proprie forze, ma cacciato dal circo perché bisognava vendicarsi del suo allenatore, quel Sandro Donati che ha sempre combattuto i signori del Male. Appena citato Schwazer in tv nei momenti delle imprese di oggi, quasi come fosse ancora un appestato.

Lo sport italiano sta bene e chissà perché. Ce lo diranno gli esperti. Abbiamo perso medaglie sicure, scherma, sport di squadra, nuoto, anzi non abbiamo vinto nei soliti sport. Qualcuno ha contato medaglie in 15/16 sport diversi. Abbiamo anche un’altra staffetta in finale: la 4×400. Malagò gongola. Le gran dame del Circolo se lo mangeranno con gli occhi al ritorno. Bravo e fortunato.

Lo sport italiano sta meglio dell’Italia. Dove una donna di 40 anni, Laila, muore stritolata da una fustellatrice e quell’altra poveretta, Luana, viene inghiottita da un orditoio. Macchine dai nomi inverosimili, macchine assassine come il lavoro moderno, i caporali non stanno soltanto in mezzo alle campagne. Sta meglio di un paese che non dice una sola parola su un giornale vecchio di 134 anni che ha chiuso: avete sentito qualcuno parlare della Gazzetta del Mezzogiorno? Sono giornalisti, se la vedessero tra di loro. Nessuno piangerà per loro.

Nemmeno i quattro ragazzi veloci della pista di Tokyo.

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