Anna Camaiti Hostert
Cartolina dagli Usa

America, quali diritti?

Gli Stati Uniti sono ancora intrisi di razzismo: la vita quotidiana è piena di esempi illuminanti in tal senso. Proprio per questo è importante la posizione assunta da Joe Biden in merito all'Afghanistan e dettata anche dalla scelta di rispettare i diritti umani...

Sebbene abbia maturato svariate riflessioni sulla situazione in Afghanistan, fino ad ora non ne ho ancora scritto. Infatti durante i giorni passati mi sono spostata dagli Stati Uniti in Italia compiendo un viaggio più lungo del solito per cause di forza maggiore e appena arrivata sono dovuta andare di corsa in Abruzzo al Festival John Fante dove ero stata invitata a parlare proprio dell’America. Da questa piccola grande iniziativa di alta cultura che si tiene a Torricella Peligna e che ho sentito immediatamente mia, visto che la caratteristica fondamentale di questo scrittore italoamericano è stata quella di essere un outsider,prendo spunto per scrivere le considerazioni che seguono.

Essere un’outsider è infatti una condizione che mi appartiene da sempre, ma che dopo l’inizio della mia avventura americana è connaturata con la mia esistenza. In America sono l’italiana e in Italia sono l’americana. Insomma sono sempre fuori posto. E cosi guarderò la mia America da europea e giudicherò l’Italia con occhi americani. Sapendo già che così facendo scontenterò tutti da una parte e dall’altra. So be it!

Per farlo metterò insieme elementi apparentemente diversi, usando la terminologia del mio caro amico Nicola Fano (con il quale condivido un passato di speranze, un presente di frustrazioni e l’idea di un futuro pieno di timori) che in un articolo recente (clicca qui per leggerlo) ha parlato di “capre e cavoli” cioè di cose che apparentemente non hanno niente in comune, ma invece poi…. Infatti cosa c’entra l’Afghanistan con il mio viaggio dagli Stati Uniti?

Evacuazione di Kabul

Sia il Papa che Gino Strada hanno detto che tutte le guerre sono ingiuste che sono il male dell’umanità. E hanno ragione. Certamente quella in Afghanistan non fa eccezione. Anche se di eccezioni una ce n’è stata: la guerra che ci ha liberato dal nazifascismo, che ha consentito l’instaurazione in Europa di democrazie solide e prospere e un lungo periodo di pace. Quella che fu combattuta da coloro che fecero la Storia (con la S maiuscola) perché cambiarono davvero le cose, come scrisse il filosofo ed amico Mario Perniola il quale ribadì che le generazioni successive, soprattutto la mia, hanno fatto solo delle “storiette”, incidendo ben poco sulle sorti del mondo. Dunque bisogna sempre considerare le eccezioni che peraltro, come si sa, confermano la regola.

L’Occidente e con esso l’America che ne è la sua punta di diamante sono morti, scrivono oggi i rivoluzionari di professione. Puzzano già e non lo sanno, affermano. Ebbene non c’era bisogno di loro per sapere che la crisi dell’occidente è grave. Parlano del razzismo degli Stati Uniti, scoprendo l’acqua calda. È nel suo DNA da sempre, come nel DNA c’è pero la capacita di scorticarsi vivi fino all’osso (magari ce l’avesse l’Europa!!!) e di rimediare agli errori del passato varando una legge sui diritti civili ed eleggendo un presidente nero. Scomparso il razzismo? Certo che no, ma i passi in avanti si devono comunque contare per arrivare a possibili cambiamenti anche perché, come si sa, nel tragitto si fanno anche molti passi indietro. La storia si muove, come ci ricordava Marx, per evoluzioni e per rivoluzione durante le quali i passi indietro sono sempre in agguato.

Di nuovo con acume e intelligenza Mario Perniola aveva decretato la grave malattia dell’Occidente anni fa, non soltanto pronosticando l’ineluttabilità della sua fine, ma   additandone gli errori pregressi.

Bisogna esportare la democrazia dicono alcuni cantori conservatori. Ma, come disse giustamente la sinistra nel 2001, la democrazia non si esporta con le armi o, come scrive Fano nel suo pezzo, “contro la volontà dei popoli”. Le parole di Biden al proposito sono chiare: “La missione degli Stati Uniti non è mai stata quella di costruire una nazione. Abbiamo dato al governo afghano ogni strumento per decidere il loro futuro. Continueremo a sostenere il popolo afgano attraverso la diplomazia, così come facciamo in tutto il mondo”. E in seguito “I diritti umani devono occupare il posto d’onore della nostra politica estera…”. Solo parole? Sembra di no, a stare a un documento di vitale importanza che risale addirittura al 2007 e che, con la sua implementazione, cambia l’atteggiamento militare americano nei confronti delle missioni in altri paesi. Parlo dell’U.S. Army Marine Corps Counterinsurgency Field Manual.  Voluto dal generale Petraeus, che fu punito per questo e costretto a dimettersi per uno scandalo extraconiugale dai falchi delle gerarchie militari che lo accusarono di stravolgere il mondo militare, questo documento ha cambiato per sempre la filosofia americana delle missioni militari. Scritto quasi interamente da donne, registra tra le altre la presenza essenziale di Sarah Sewall professoressa alla Harvard School di Boston, direttrice del Carr (Center for Human Rights) e che, sotto le amministrazioni Clinton e Obama, fu responsabile dell’assistenza delle missioni militari di pace. E che infine ha fondato, divenendone direttrice, il Mass Atrocity Response Project un organismo che si batte contro i genocidi e le atrocità di massa come parte di una più ampia strategia integrata che riguarda la preparazione del personale militare nei paesi di guerra. Poi c’è l’antropologa Montgomery McFale che ha curato le parti culturali della sua elaborazione ed è stata consigliera di quel Human Terrain System che prevede che i militari americani abbiamo una preparazione culturale consona all’impegno in paesi la cui cultura è profondamente diversa da quella americana. Al fine di rispettarla. Un modo ancora più sottile per controllare altri paesi, è stato detto, ma anche un modo per sconfiggere il colonialismo insito in certi atteggiamenti militaristi e dominatori degli americani dalla seconda guerra mondiale in poi.

E basta leggere i 9 punti su cui si basa per capirne lo spirito. Sono tutti contro l’uso della forza, dell’imposizione violenta di strategie tattiche e culturali dall’alto fino ad arrivare al punto 9 dove si legge che many important decisions are not made by generals. E questo ovviamente non poteva essere tollerato dalle potenti gerarchie militari. Ma è comunque avvenuto e non è bastato far fuori Petraeus per impedirne l’applicazione. Dunque i diritti umani sono stati al centro dell’attenzione militare americana anche in Afghanistan. Ma rimane il fatto che Biden seppure cerchi di far rispettare i diritti umani, deve anche rispettare i termini imposti dai talebani che non sono disposti a lasciar partire i loro cittadini indefinitamente. Hanno posto dei limiti temporali e delle modalità ben precise.

Qualcuno in Italia mi ha detto che Biden dovrebbe, come ha fatto Angela Merkel almeno recitare un mea culpa e fare ammenda per gli errori commessi. La Cancelliera tedesca però è stata ininterrottamente al governo per vent’anni e ha seguito da protagonista tutte le vicende e le fasi relative a questa guerra.

In America durante questo conflitto, si sono succeduti ben 4 presidenti con obiettivi non di rado divergenti. È stato Bush, commettendo un errore senza precedenti, ad iniziare questa guerra per decapitare al-Quaida cosa che evidentemente non gli è riuscita, se oggi è stato dato mandato da parte talebana ad un componente di quella organizzazione di trattare con l’ex governo afghano il passaggio di consegne. Dunque l’obiettivo di quella guerra è fallito. E questo lo si sapeva già da tempo. Anche se è stato però Obama a catturare ed eliminare Osama Bin Laden decapitando al-Quaida. Anche se, come si vede, non in maniera definitiva. Poi però ha lasciato le truppe in Afghanistan. Dopo di lui Trump, forse con l’unica decisone saggia della sua presidenza, ha decretato il ritiro delle truppe americane nel maggio scorso. In continuità con questa presa di posizione, ritenuta giusta, Biden la sta eseguendo con tempi non decisi da lui e con modalità, come ha ribadito nei giorni scorsi, che cercheranno di tenere conto dei diritti umani il più possibile e compatibilmente con quello che i talebani gli lasceranno fare. Non bisogna mai dimenticare che i contendenti in questa situazione sono due e che l’uno, i talebani, è al potere e in controllo della situazione. Le immagini che abbiamo visto sono atroci e non possono lasciare indifferenti anche se, a mio avviso, non hanno niente in comune con quelle della partenza da Saigon se non per la pena dell’umanità dolente che rappresentano. La lezione di allora è stata imparata quando si è scritto un documento come quello che ho citato sopra e che prevede il rispetto dei diritti umani e delle culture altre. Ma ci sono grandi differenze con allora: c’era la guerra fredda, la guerra ufficialmente era stata persa dagli americani e c’era ancora il pericolo comunista che oggi non esiste più. 

Evacuazione di Kabul

È vero le operazioni di partenza da Kabul   potevano essere condotte con una maggiore presenza organizzativa, ma le emergenze, come in questo caso, sono piene di imprevisti, di grande confusione e non di rado di grandi tragedie. Ma che un presidente si debba scusare in generale per una guerra che non ha iniziato e per una scelta che appare giusta lo vedo quantomeno stravagante. Mi pare solo un pretesto per il rispolvero di un antiamericanismo ideologico di maniera, anni ’70 che certamente non potrà giovare ai paesi occidentali tutti alle prese con la crisi delle loro democrazie interne.

E adesso veniamo ai “cavoli” che però sono strettamente collegati alle “capre”. Ma prima una premessa.

In un libro di recente pubblicazione The Narrow Corridor: States, Societies and the Fate of Liberty, (Penguin, 2019), Daron Acemoglu e James A. Robinson parlano di come sia difficile mantenere il “corridoio stretto” della democrazia e, riferendosi al Leviatano di Thomas Hobbes, individuano le caratteristiche di essa in quello che definiscono il Leviatano incatenato. Il suo essere incatenato consiste in quel complesso di leggi, di diritti garantiti e di partecipazione democratica che permettono di controllare le operazioni del Leviatano stesso, il famoso sistema di pesi e contrappesi che hanno caratterizzato democrazie come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Ma come mantenere questo status quo dal delicato equilibrio? Quello che gli autori definiscono il Red Queen Effect mutuato da Lewis Carrol di Through the Looking Glass è “il processo di competizione, lotta e cooperazione tra lo stato e la società”. L’eccessiva partigianeria e la mancanza di fiducia negli avversari sono due caratteristiche perniciose per il mantenimento del “corridoio stretto della” democrazia. Quello che manca di questi tempi sono infatti l’abilità di negoziare, la fiducia nelle istituzioni pubbliche e leader che si preoccupino più del bene comune che dei propri interessi. Queste lacune sono tutte presenti nell’America di oggi e non solo.

Ed eccoci nel cuore dei “cavoli”. Per tornare in Italia sono partita da Chicago per arrivare a Dallas da dove sarei dovuta partire per Roma. Questo in teoria avrebbe dovuto essere il tragitto previsto, senonché poco prima di atterrare a Dallas il pilota ci comunica che a causa di una forte tempesta estiva al momento non si può atterrare a Dallas e dunque dobbiamo rimanere in volo fino a che non ci daranno l’autorizzazione. E cosi rimaniamo in un limbo di incertezza per un paio d’ore fino a che di nuovo il pilota ci comunica che non avendo ricevuto nessun ok per l’atterraggio e avendo finito il carburante è costretto ad atterrare a Little Rock in Arkansas, stato del sud con il più basso tasso di vaccinazioni Covid nel paese e uno dei più alti di razzismo. Sì, avete ragione: è lo stato dove Bill Clinton è stato governatore.

Vi risparmio le vicende delle sistemazioni lasciate ai singoli passeggeri senza che nessuno della linea aerea si faccia vivo o si prenda la briga di comunicarci cosa fare o dove andare e vi risparmio anche le altre avventure del pernottamento per arrivare a quello che mi interessa: i “cavoli” di cui sopra. La mattina dopo anche con vicende alterne e anch’esse alquanto stravaganti che forse saranno oggetto di un saggio con a tema quella che definisco “la sorpresa americana” arrivo alla Security dove c’è l’officer che fa le ispezioni dei bagagli. Mi prende lo zainetto dove erroneamente, sì mea culpa, avevo messo una bottiglietta d’acqua che mi avevano dato in albergo e, dopo averla sequestrata e messa da parte, comincia ad ispezionarlo. Dentro avevo una mascherina con scritto sopra Black Lives Matter (la tengo di riserva in caso abbia bisogno di una doppia mascherina); la tira fuori e con aria di disgusto la sposta di lato e a quel punto comincia un’ispezione meticolosa e fastidiosa di ogni cosa contenuta in esso. Nel frattempo io ho l’aereo che aspetta. Sono le 6,50 e l’aereo parte alle 7. Ispeziona le chiavi una per una come se nascondessero qualche arma di distruzione di massa. Al che alla quinta chiave mi sfugge un “sono solo chiavi!”. A quel punto l’uomo, un signore bianco di mezza età, risponde irritato che lo vede anche lui che sono chiavi e che sa bene cosa siano, rimarcando dunque il suo potere di trattenermi, poi passa al piccolo portafoglio esaminando tutte le monetine una per una. Finalmente mi rende lo zainetto sempre con aria seccata e quando gli chiedo se per favore mi fa bere un sorso d’acqua (nel frattempo il nervosismo mi aveva seccato la bocca) prima di buttarla, con aria trionfante mi risponde di no, perché, lo dovrei sapere, questa è la legge e non si può fare. Ho fatto un feroce e breve commento a suo riguardo, ma quando ho visto la reazione ho deciso che era meglio tacere o quel tipo mi avrebbe fatto perdere l’aereo. Un comportamento così patentemente provocatorio di abuso di potere non l’avevo mai visto nei miei trent’anni di America. Il tutto generato dall’aver visto una mascherina di Black Lives Matter. Devo dire tuttavia che molti passeggeri, bianchi e neri mi hanno subito testimoniato la loro solidarietà dicendomi che se avessi avuto bisogno di provare l’atteggiamento razzista dell’officer mi avrebbero sostenuto.

Certo è proprio questo razzismo sepolto sotto la cenere della Southern Strategy praticata da anni dal partito repubblicano, che con Trump è riaffiorata, a farci temere per le sorti della democrazia, quel corridoio ora cosi stretto che è diventato solo un filo sottile di luce, quello stesso che ha fatto decidere Biden di ritirare le truppe dall’Afghanistan. Lo vogliono i cittadini americani, lo vuole un elettorato che se torna a votare non farà sconti a chi non ha ascoltato la sua voce: i voiceless arrabbiati come l’officer di Little Rock voteranno Trump e allora per l’America e per il mondo saranno davvero dolori. Perché non ci sarà più nessun tipo di illuminazione seppure flebile e lontana a garantire che la democrazia in qualunque paese venga istaurata abbia la speranza di svilupparsi e di avere una vita piena. Attenzione non si parla di esportarla, cosa ormai obsoleta, come dimostra anche il Manuale di contro insurrezione dei Marines, perché a ciò siamo tutti contrari in quanto forma di violenza, e neanche di altri tipi di interventi, ma di lasciar filtrare la luce lontana della sua possibilità.  Perché una volta scomparsa dall’orizzonte è difficile, come sappiamo bene, farla riapparire!

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