Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Non ci capisco niente”

Tormentato Pavese

L'Orma pubblica una raccolta di lettere inedite di Cesare Pavese dalle quali emerge un ritratto molto sfaccettato. Legato alla sua vocazione poetica, scontento di sé e del suo rapporto con le donne ma orgoglioso come non mai. È qui il segreto del suo suicidio?

Chi segue le vicende letterarie del Novecento, sa che Cesare Pavese si tolse la vita il 27 agosto del 1950, a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Porta Nuova, a Torino. Lasciò un fogliettino con le sue ultime parole: «Non fate pettegolezzi». Qual è il significato? Non è giusto ipotizzare fallimenti letterari. Lavorava alla Einaudi e con questa casa editrice ebbe successo come autore. Qualcuno ha ipotizzato tormenti sentimentali. Alcuni sapevano che con le donne aveva non pochi problemi. Esaminando le sue lettere giovanili, comprese quelle inviate da Brancaleone, in terra calabra, cui era stato confinato come oppositore del regime fascista, è possibile non stupirci più di tanto dell’atto estremo. Queste missive sono edite da L’Orma (61 pagine, 7 euro), col titolo Non ci capisco niente.

Effettivamente capiva poco, pur tentando di farlo, sul suo presente giovanile, sulle sue aspirazioni, sugli obiettivi che s’era prefissato di raggiungere. A parte certi sconforti, si considerava un poeta, anzi: un grande poeta (c’è un fuggevole paragone con Dante Alighieri e Omero). Ma si sa anche che dava prove di sarcasmo e autoironia. Fuor di dubbio che fosse un giovane tormentato, alla ricerca faticosa del “sé”.  Scrive Federico Musardo nella prefazione che Pavese, «come tutti i fabbricatori di miti… aveva una sua compattezza tematica e stilistica… nascondendo vastità quasi insondabili».

E ancora: «È stato scrittore solo per la solitudine dei propri occhi, e poi anche per gli amici più stretti e i confidenti più intimi». Tra questi ultimi c’è da annoverare Italo Calvino, fresco di laurea, alle prime esperienze come narratore e ufficio stampa della casa editrice, la Einaudi, che gli pubblicò il suo primo scritto, Il sentiero dei nidi di ragno. Musardo sostiene che «leggere la sua corrispondenza significa anche scoprirne il piglio insolente da spaccone, persino la voglia disinibita di divertimento». A questo proposito, il giovane Cesare scrive a un amico: «Sono un cretino e poseur. È più probabile che mi ammazzi con le seghe. Di’, io faccio tanto il disperato, eppure pensa che fortuna che nessuna donna mi abbia mai accettato: col bel carattere che mi dà fuori ora, staremmo freschi tutti e due».  Scacciando dubbi iniziali, Pavese, «che in questi giorni un tedio mortale di ogni occupazione mi va desolando», si dice convinto di fare il letterato. Anzi: il poeta. Quando uscirà la sua prima raccolta, Lavorare stanca, Pavese è consapevole dello stato psicologico di un autore esordiente. L’editore era Alberto Carocci (Firenze), direttore della rivista Solaria. Il dattiloscritto è rimasto in redazione per due anni. Il ritardo aveva estenuato Pavese, il quale s’era perfino offerto di «pagare una parte della carta».

Praticamente, a parte l’orgoglio dell’autore, non succede niente. La fama è lontana. Arriverà nel 1941 col suo primo romanzo, Paesi tuoi.  Ciò dimostra quel che è sempre successo e che anche oggi succede: non sono le liriche a dar fama, ma solo i romanzi. Eppure Pavese contava molto sull’essere poeta. Mostrando di avere un carattere instabile, permaloso e, sotto sotto, polemico, a un amico scrive: «Non capisco poi dove hai letto che io sono scoraggiato: che cosa significa questa parola? Il tormento è un’altra cosa (lo sai benissimo); è come il marchese (parola che veniva usata per indicare le mestruazioni, ndr) e quando cessa nasce un figlio. Mi consigli di lavorare? Non ho bisogno di consigli. Quattro mesi, quattordici poesie, di cui sette superiori a ogni elogio». E poi: «Non capisci che mi diverto? Tanto ridendo, tanto lamentandomi… quando un uomo scrive le più belle poesie del secolo, il calvario ha da essere lungo».

Tra numerose lamentazioni a proposito di una vita isolata (prima a Santo Stefano Belbo, lande cuneesi), il nostro, come si suol dire, aveva un bel caratterino. Al consueto amico si confida così: «Sono tre mesi che ho vissuto in passione continua; lo faccio, non lo faccio». Riferendosi a una rivoltella, con la quale spara un colpo a terra, dice: «Fa una paura tremenda quello sconquasso sanguigno del cervello molliccio…».

Nel suo paese nativo, fa una sorta di auto-analisi: «Ormai negli avvenimenti di questi ultimi mesi (si prepara per gli esami, ndr), non più per me, ché ogni passione verso l’alto è morta, mi sono conosciuto bene, definitivamente: incapace, timido, pigro, malcerto, mezzo matto mai; e mai mi potrò fermarmi in una posizione stabile, in ciò che si chiama riuscita nella vita. Mai, mai. Lo sforzo necessario a questa conquista non ho più l’energia di sopportarlo, perché so che tanto è sarebbe inutile: non ci riuscirei. E anche se ci riuscissi, ne varrebbe poi la pena?… vivo quindi sforzandomi il meno possibile. Ma così non durerà, non può durare, troppi fermenti mi tormentano. E, siccome, come ho detto, mai e poi mai saprò dirigere questi impulsi fermentanti, guarda che in che tiramolla sono! Bere, abbrutirmi, non ci riesco mica. Vorrei ma non ci riesco. Sono un coglione. Cocaina, morfina, chissà quanto costano! Almeno così ci sarebbe l’esaltazione di una fine grandiosa!».

Dolorosamente non sa a quali orizzonti fissare lo sguardo: «L’estate mi ammazza. Io non concludo più nulla. Sono morto, morto. Neanche i bei pensierini di una volta (quest’inverno), quelli sai, pum pum, non mi vengono più a rallegrare colla loro intensità lirica gli aristocratici ozi laboriosi di supremo rappresentante di questa schifosa società monarchico borghese capitalistica…W la rivoluzione».

Queste sono pagine che possono spiegare, almeno in parte, il perché si sia ucciso, alla fine di un’estate che non possiamo che immaginare tormentata, molto tormentata.

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