Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Olimpiadi fantasma

Si aprono a Tokyo i Giochi che i giapponesi non volevano. Villaggio olimpico blindato, atleti controllatissimi, nessuno spettatore: solo il Cio difende a spada tratta gli affari delle Olimpiadi fantasma. L'unica speranza è che gli atleti, almeno loro, riescano a misurarsi con se stessi

Chissà se questi Giochi olimpici arriveranno alla fine. I padroni dello sport, cioè il Comitato olimpico internazionale (Cio), hanno detto che niente potrà fermare il programma, nonostante il Covid stia investendo massicciamente il Giappone e già ha assalito molti atleti. Le autorità giapponesi temono invece che lo stop possa arrivare se la situazione diverrà insostenibile: «Vedremo che fare se ci sarà un picco di casi» diceva il direttore della manifestazione, Toshiro Muto.

È noto: i giapponesi non volevano queste Olimpiadi. Qualche politico ha chiesto persino scusa agli abitanti di Tokyo. I giapponesi speravano che venissero cancellate definitivamente dopo che erano state depennate nella scorsa estate. Ma in realtà questa idea non ha mai sfiorato il Cio: «La cancellazione sarebbe stata facile, ma non è mai stata un’opzione per noi, il Cio non abbandona mai gli atleti» ha sentenziato Thomas Bach, presidente del Comitato olimpico, con buona dose di ipocrisia e sfacciataggine.

Più che agli atleti, il Cio bada ai propri profitti – che certo tengono in piedi migliaia di organizzazioni sportive in tutto il mondo – e cioè alla vendita dei diritti televisivi e ai contributi degli sponsor (91% delle entrate). Ci sono in ballo oltre 3 miliardi di dollari e altri 3 se ne sono andati in fumo per il mancato svolgimento dei Giochi lo scorso anno.

Dal punto di vista economico, queste Olimpiadi sono già un fallimento. Almeno per il Giappone. Le spese organizzative si sono moltiplicate rispetto al 2013 quando a Buenos Aires vennero assegnati i Giochi numero 32 della storia. Allora era previsto un esborso da parte dei padroni di casa di circa 7,5 miliardi di dollari, adesso siamo arrivati a 15,6. Lo spostamento di un anno ha comportato un aggravio di 3 miliardi. Non ci sarà pubblico e non ci saranno turisti, quindi niente incassi di biglietti, scarsissima movimentazione di denaro per alberghi, ristoranti e altre strutture turistiche. Insomma, un vero e proprio bagno di sangue per le finanze nipponiche. Il Comitato olimpico ne esce meglio e riesce a mettere una toppa ai suoi buchi grazie alle tv (che comunque faranno buoni affari) e agli sponsor (quelli che sono rimasti).

Le prime corrispondenze dall’Estremo Oriente parlano di un clima surreale e di un’atmosfera, come dire, sigillata: atleti sottoposti a continui esami medici, tamponi e altre indagini preventive; isolamento dalla mattina alla sera e quindi scarsa socializzazione, tutti chiusi nelle proprie camere, impossibile andare in giro, niente casini collettivi che pure sono sempre stati una caratteristica dei villaggi olimpici.

Ma la bolla anti-Covid è già stata bucata, dall’aumento dei contagi tra chi dovrà prendere parte alle competizioni e tra chi accompagna gli atleti.

Olimpiadi tristi, senza platee di tifosi, senza feste, senza abbracci, difficili da gestire, forse destinate a essere troncate da un giorno all’altro. Allora, era proprio necessario farle a tutti i costi?

Si dice: è una sfida alla pandemia. E si aggiunge: non si poteva negare agli atleti che hanno fatto sacrifici enormi – e ancor più pesanti da quando è scoppiato il Covid – di partecipare all’evento, di gareggiare. Uscirne in qualche modo vittoriosi significherà dare speranze al mondo intero per andare avanti immaginando un presente migliore e libero e un futuro immediato più favorevole, una ripresa generale anche dal punto di vista mentale. E salire sul podio e conquistare un oro ma anche un argento o un bronzo porta un giovane a coronare un sogno che in questa occasione, in circostanze così avverse, merita ancor più rispetto e ammirazione. Già il rinvio dell’estate 2020 era stato un brutto colpo per molti.

Allora vanno sostenuti i protagonisti di corse, tiri, partite, bracciate in acqua, in una parola i veri protagonisti. Vanno applauditi i loro sforzi ed è certo che ci entusiasmeremo per certe vittorie che, questa volta, non comporteranno caroselli nelle piazze. Le vittorie olimpiche non fanno caciara e non alzano i contagi tra chi li segue. Ci lasceremo coinvolgere anche da chi esce battuto, da chi verserà lacrime e sarà ancora più solo date le circostanze e i bollettini virali. Non fosse altro per le parole che Marcelo Bielsa, grande guru del calcio, usa quando parla degli sconfitti: «Il successo è deformante, rilassa, inganna, ci rende peggiori, ci aiuta a innamorarci eccessivamente di noi stessi. Al contrario, l’insuccesso ci rende stabili, ci fa tornare ad essere coerenti! (lo abbiamo letto in un bel libro di Moris Gasparri: Il potere della vittoria. Dagli agoni omerici agli sport globali Salerno Editrice).

Lo sport oggi è questo ed ha nelle Olimpiadi la sua più plateale manifestazione. Abbandonate le leggende otto-novecentesche, l’agonismo professionale è diventato sempre più uno strumento di potenza e di affarismo. Di arroganza, molto spesso. Lo sport – i suoi sacerdoti almeno che non sono gli atleti ma i dirigenti – è sempre più un’entità a parte, suprema, che se ne infischia di quello che gli accade intorno se questo rischia di entrare in conflitto con i propri interessi, i propri affari. Anzi, a volte, è fuori dalla legge. D’altro canto, per foraggiare una mostruosa macchina come questa organizzazione mondiale non ci si può fermare. A qualsiasi prezzo. Gigantismo sì, e sempre più kolossal: a Tokyo ci sono 207 paesi, circa 11 mila atleti, un calcolo, di quelli di un tanto al chilo, che dice che ci saranno 5 miliardi di persone nel mondo attaccati ad una tv o ad uno smartphone, insomma in qualche modo connessi, che osserveranno tuffi, calci, pugni e palle che rimbalzano.

Di conseguenza, si fanno Olimpiadi in piena ripresa Covid 19, oltretutto nella stagione sbagliata perché adesso in Giappone fa un caldo boia, oppure si organizzano i mondiali di calcio in un paese che calpesta nel modo più brutale i più elementari diritti di un uomo. Oppure si finge di non sapere che i controlli antidoping sono stati allentati da più di un anno a questa parte, perché c’era da pensare ad altro: tanto che importa? Basta accontentarsi di far sfilare la Russia, che in materia ne ha combinate di tutti i colori, senza bandiere, senza sigla, senza chiamarla Russia per sentirsi la coscienza tranquilla. Lo spettacolo deve comunque tenersi. Eppure, abbiamo appena finito di vedere un ragazzotto che vince la più nobile delle corse ciclistiche, il Tour de France, facendo medie spaventose, oltre le possibilità umane: perché scandalizzarsi ancora?

Ecco, sediamoci in poltrona con il fiato sospeso, incrociamo le dita per quello che potrà succedere (tanto da noi va anche peggio e ogni pretesto è buono per riempire le piazze e fare ammuina, altro che green pass, e senza che nessuno si prenda la responsabilità di fermare gli untori): applaudiremo le belle imprese di chi si batte lealmente, nella convinzione che lo faccia in maniera pulita (che è come cercare il famoso ago nel pagliaio).

Facebooktwitterlinkedin