Lucia Dell’Aia
“Cronaca di una vita abitante (1806-1843)”

Il Signor Hölderlin

Giorgio Agamben ricostruisce gli ultimi anni di esistenza del poeta. Posto ai margini della società, i suoi gesti, i suoi modi, la sua idea filosofica dell’Io sembrano «pretendere una dimensione pubblica il cui significato politico Agamben prova a mettere in luce»

Per chi fosse andato a far visita a Hölderlin nella torre affacciata sul Neckar a Tubinga sarebbe stato possibile, secondo la testimonianza di C. T. Schwab, ascoltarlo suonare il fortepiano e cantare, fra le altre possibilità, un’aria tratta dall’opera buffa di Giovanni Paisiello, L’amore contrastato La bella molinara, tradotta in tedesco: Mich fliehen alle Freuden (Nel cor più non mi sento): «Nel cor più non mi sento / Brillar la gioventù / Cagion del mio tormento / Amor, sei colpa tu / Mi pizzichi, mi stuzzichi / Mi pungichi, mi mastichi / Che cosa è / Questo ahimè? / Pietà, pietà, pietà! / Amore è un certo che / Che disperar mi fa». A inanellare questa suggestiva testimonianza ad altre è Giorgio Agamben che riprende e sperimenta in modo originale nel volume La follia di Hölderlin (Einaudi, 248 pagine, 20 euro) la forma letteraria della cronaca, ripercorrendo attraverso varie fonti la seconda metà della vita del poeta, i trentasei anni trascorsi come pazzo dal 1807 al 1843 nella casa del falegname Zimmer a Tubinga, dove era stato relegato dalla sua famiglia di origine. Grazie all’intelligenza poetica dell’autore e alla sua attenzione sensibile verso chi è posto ai margini della società, da questa cronaca emerge la vita di Hölderlin come “figura”, ovvero come qualcosa che allude a un significato reale che può solo essere contemplato nella sua conoscibilità e destinato a restare celato e nascosto. 

Riprendendo una espressione tratta da un componimento poetico dell’ultima fase compositiva di Hölderlin, il libro ricostruisce gli ultimi anni della “vita abitante” del poeta, che Agamben interpreta come un modo di esistenza impersonale, legato strettamente al concetto filosofico di abito e di abitudine, e dal quale emerge con profondità una idea filosofica dell’Io in Hölderlin, che si allontana da quella di soggetto assoluto di Fichte o del primo Schelling. Come aveva già intuito Robert Walser, con la seguente riflessione riportata in epigrafe da Agamben, «nel suo quarantesimo anno Hölderlin ritenne consigliabile, cioè pieno di tatto, perdere la sua umana ragione». Nelle intenzioni dell’autore, chi legge il volume non ricaverà la verità psicologica o storica della vicenda umana del poeta, ma potrà riflettere, a partire da questa figura, su una forma di vita privata che nasconde un significato politico. Da un rapporto del Ministero degli Interni del Württemberg sullo stato dei malati di mente nella città di Tubinga del 1832, alla voce da compilare riguardante il carattere della malattia mentale il poeta viene definito “confuso” e fra le cause della stessa vengono individuati un “amore infelice”, un “esaurimento” e gli “studi”; si ammette altresì il suo carattere mansueto, confermato anche dalle numerose lettere del falegname Zimmer alla famiglia. Si ricordi, ad esempio, quella del 18 luglio 1834 nella quale si legge: «Anche il suo carattere è molto buono, solo che non vuole che gli si diano ordini». 

La confusione attribuita al suo stato mentale e la mancanza di coesione con cui viene definito lo stile dell’ultima fase della scrittura del poeta, nell’epilogo di questo volume acquisiscono un significato filosofico essenziale secondo la definizione di una forma superiore di coesione o “infinita unità”, che dà conto di un altro modo di connettere i pensieri e che pensa una coincidenza fra gli opposti che non si risolve nella sintesi hegeliana. Quanto invece al significato politico che questa vita abitante (poetica) porta con sé è essenziale tenere conto, secondo Agamben, dell’operazione di neutralizzazione del tragico e del comico a cui essa di fatto rimanda, come del resto la suggestione musicale posta da noi in apertura intendeva suggerire attraverso il tema dell’amore infelice risolto in opera buffa. Se la tragedia si definisce a partire dalla sfera dell’azione imputabile di colpa, mentre invece il comico a partire dall’imitazione del carattere, che depone però ogni responsabilità rispetto all’azione, la vita abitante di Hölderlin rimanda a un dimorare fatto solo di parole e di gesti anonimi e formali, ma a cui non è possibile attribuire azioni o discorsi. Colpiscono molto le freddissime e formali lettere del poeta alla madre (secondo Agamben velate di ironia) così come la mancanza di testimonianze riguardo alle sue reazioni di fronte alle morti di persone familiari o amiche, così come la sua abitudine irrinunciabile a farsi apostrofare come “signor bibliotecario”, cioè in riferimento a un ruolo pubblico che di fatto non aveva; e ancora la consuetudine di rivolgersi a coloro che andavano a trovarlo con titoli formali come “Vostra maestà”, “Santità”, quasi che, come ipotizza l’autore, fosse questo per lui un modo per stabilire una distanza con il mondo. 

La vita da recluso del poeta sembra così pretendere per sé una dimensione pubblica il cui significato politico Agamben prova a mettere in luce anche in opposizione rispetto a chi nello stesso momento storico vestiva i panni dello scrittore coronato dal successo, come ad esempio Goethe. Conclude Agamben, «la lezione di Hölderlin è che quale che sia lo scopo per cui siamo stati creati, non siamo stati creati per il successo, che la sorte che ci è stata assegnata è fallire – in ogni arte e studio e innanzitutto nella casta arte di vivere. E, tuttavia, proprio questo fallimento – se riusciamo a afferrarlo – è il meglio che possiamo fare».

Spingendo all’estremo limite l’ironia romantica, Hölderlin e la sua abitudine di fronte ai visitatori a entrare e a uscire dal ruolo del poeta esibiscono la costitutiva e comica scissione della figura del poeta, non componibile in una unità. Lo stesso suo nome è messo in discussione, attraverso il proliferare di una serie di nomi apocrifi con cui firma i suoi versi, tutti attinenti a una onomastica italiana: si pensi ad esempio, fra i tanti, a quello più raro di Buonarroti con il probabile riferimento al rivoluzionario Filippo Buonarroti (1761-1837), uno dei teorici più radicali della proprietà comune, dell’egualitarismo e critico dell’industrialismo. Non senza una certa commozione si leggono alcune pagine di questo volume in cui a emergere è la ripetitività e contingenza della vita segregata. Dal rendiconto puntuale e periodico delle spese fatto da Zimmer alla famiglia del poeta ricaviamo elenchi del costo delle scarpe risuolate e rattoppate così come quello del suo fazzoletto da collo nero o delle camicie da sostituire perché di frequente strappate alle maniche come se egli facesse dei lavori di fatica. Ed evidente appare, in genere, il significato politico dell’intera opera di scrittura agambeniana, tesa a pensare l’oppressione del presente attingendo prima di tutto a un ripensamento del passato, come i seguenti versi di de Musset sembrerebbero suggestivamente suggerire: Quand l’homme change sans cesse,/ au passé pourquoi rien changer? («Dal momento che l’uomo cambia senza sosta /perché non cambiare nulla del passato?»).

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