Daniela Matronola
Una tendenza della nuova narrativa

Tutto sulle madri

Una pervasiva idea di madre appare da tre romanzi appena usciti che raccontano storie complesse di figlie che non riescono a liberarsi dai fantasmi: “Esagera, la vita” di Giulia Arnetoli, “I passi di mia madre” di Elena Mearini e "Cosa rimane" di Rita Pacilio

Comincio da un’osservazione forse più editoriale che critica: sono usciti molti romanzi, non solo di scrittrici, attraversati da una pervasiva idea di madre. Libri legati, salta all’occhio, da un comune ragionamento narrativo sulla figura della madre, che non sempre poi si risolve in un peana alle madri: è più una discussione, mi pare, attorno alla madre come ruolo-chiave, dunque come elemento poetico forte nell’impianto di altrettanti romanzi.

Escludendone molti altri per ora, per varie ragioni (visibilità di chi li ha scritti o importanza dei loro editori), sono tre i libri su cui qui vorrei sorreggere questo mio discorso.

Il primo è I passi di mia madre (“La ricerca di un amore mancato”, recita il sottotitolo, edizioni Morellini, pagine 224, 15,90 Euro) di Elena Mearini. Un romanzo che con precisione tecnica fa coincidere o meglio lascia ruotare l’una nell’altra tre aree della macchina narrativa: non sfugga il dettaglio che la protagonista e io-narrante del libro, Agata, è una editor, qualcuno che traffica con la sapienza compositiva, ed è, su un piano squisitamente personale, come personaggio interno alla storia, legante vivo fra i tre piani che attivano la macchina della narrazione. Tutto ruota attorno alla scomparsa della madre, improvvisa e avvolta nel mistero, avvenuta quando la protagonista, tredicenne, era alle soglie dell’adolescenza. Da allora Agata convive con l’assenza della madre, con un attaccamento tenace e tenero al padre, con la distorsione dei rapporti affettivi, la sudditanza e svalutazione di sé, e con due possibili escamotage che, senza svelare troppo, sono, da un lato, la ginnastica col vicino, e, dall’altro, la spinta inesausta a chiarire la fine della madre.

I tre piani narrativi che ruotano uno nell’altro sono: la vita nel presente in cui si affaccia il passato; la ricerca mai arresa di ciò che è accaduto alla madre (un accanito tallonamento); la narrazione letteraria del suo possibile destino che immagina prima nella finzione ciò che poi affiorerà nella realtà e si sviluppa in forma quasi epistolare, cioè è racconto del pedinamento e dei suoi risolutivi risultati rivolto col tu dalla figlia alla madre.

La scrittura, si noti, è serrata, in forma breve e sincopata: un segno stilistico che investe molte opere narrative dell’ultim’ora, a volte in modo felice altre no. E c’è un’orchestrazione citazionistica che, da un lato, scomoda aforismi da grandi libri e autori come autenticazione romanzesca di quanto Agata viene via via comprendendo della propria vita e del mistero di sua madre, e dall’altro sorregge la costruzione del romanzo–pedinamento su ex-erga tratti dai Salmi di David. Gli aforismi sono sponde, e l’attesa si fa forma visibile, diventando la vera presenza in questo romanzo: “si mette di traverso, […] questo sasso gigante in cui inciampo di continuo”. Aforismi, dunque, e pietre d’inciampo.

Agata è prima di tutto una figlia: a quarant’anni, non le riesce scrollarsene di dosso il ruolo. Ci sono passi in cui è prepotente la sensazione di rivedere in lei Marnie, la fredda e fragile figura eponima del film di Hitchcock interpretata da Tippi Hedren, di cui qui sembra di sentir risuonare la voce infantile stanata in momenti della vita adulta dalle falle interiori che fatalmente riemergono: rispetto ad esse, Agata come Marnie è disarmata, o meglio si è suo malgrado attrezzata avvitandosi in compulsioni alimentari che periodicamente oscillano tra bulimia e anoressia. Sul piano tematico come su uno squisito piano di scrittura, il romanzo è ardito senza indulgere in uno sperimentalismo cieco. E l’idea di madre? È il nodo in cui è incardinato tutto il movimento a vuoto della protagonista, tanto che, scopriamo, Agata è in primo piano ma in controluce le corrisponde la figura di sua madre, spedita in un canto buio da qualcosa che è accaduto molto prima, in un momento della vita di Agata in cui lei non aveva strumenti né forza per non lasciarla scivolare via. Due sono allora gli sviluppi, e due le trasformazioni che il romanzo attiva: il capovolgimento di postura della figlia e il ribaltamento della sorte della madre.

In Esagera, la vita, Giulia Arnetoli (Les Flaneurs edizioni, pagine 198, 15 Euro) mette una giovane madre, Violante, al centro della scena ponendo subito la questione che nel romanzo precedente era il nodo da sciogliere, o meglio, il grumo da dissipare e lasciar rifluire per rovesciare i dati di partenza.

Anche Violante è intorno ai quarant’anni, e madre di due figli: Virginia, adolescente ostile, e Orlando, legato al babbo Luigi, marito separato di Violante. Appena sotto la superficie delle vicende narrate e snodo obbligato di ogni sviluppo se ne sta il fatto, l’oscuro incidente di una sera che lentamente ci sarà somministrato come freddo accaduto e balletto di responsabilità. Violante è una libraia in centro a Firenze, ha un socio, una evidente passione per la grande letteratura e un chiaro debole per Virginia Woolf (da cui il battesimo dei figli). Dal passato ancora precedente, risale qualcuno che potrebbe cassare tutta la parte feroce della vita coniugale di Violante: Cesare, che lancia l’alea allungando il passo dentro la vita di lei, tuttavia con delicatezza e rispetto, e accompagnandola con discrezione in una coda finale che mette in pericolo per Violante ogni riconquista di sé ed esita su una prospettiva di ricostruzione non scontata: fine e finale.

I nomi sono importanti, soprattutto il nome della protagonista, in cui è la chiave del fatto. La scrittura è leggiadra e lineare: zero sperimentalismo e incorporazione nel linguaggio di ogni esperienza espressiva comune, a volte senza distanza rispetto a forme anche improprie che però fioccano nella nostra quotidiana conversazione. Come il titolo del libro suggerisce, e come gli attori-chiave di questa storia (si) ripetono, questo è il punto: la vita scorre placida, trascorre, come un lungo fiume tranquillo, questo è il suo corso apparente, potente e lineare, ma le acque qua e là si increspano, ogni tanto nel letto del fiume che scorre rapido affiorano massi e impasse che deviano il tragitto o lo inabissano: e questa è dopotutto la forma del romanzo e lo stile che lo connota, un fluire apparentemente calmo punteggiato in realtà di “esagerazioni”, prove forti cui ognuno stenta a sottrarsi. Questo il vero divario tra Violante e Luigi: l’incapacità di lui di accantonare sé stesso (arriva a dare via il gatto di lei, lei assente, un passaggio che fa tornare in mente una delle scene più crude di Respiro, film di Emanuele Crialese del 2002 ambientato a Lampedusa) e di rispondere alla vita che lo chiama; e la capacità di lei di mettere da parte l’egoismo per donarsi interamente a ciò che le accade: dopo il fatto, Violante aveva vissuto un periodo di sensibilità deformata, di impossibilità a sentire persino i suoi figli, e a tenere la propria vita tra le mani: si era negata a sé stessa.

Donare sé stessa connota la figura di Lorena, protagonista e “sguardo” prevalente su quanto racconta Cosa rimane di Rita Pacilio (Augh! Edizioni, pagine 114, 13 Euro), un romanzo-romanzo scritto da una poetessa che già in passato si è lanciata nella prosa narrativa tradendo una naturale inclinazione alla prosa lirica: con grande naturalezza appunto attiva anche qui l’uncinetto suturante dell’analogia e della serena contiguità formale. Non c’è qui solo un’idea della maternità in alcune opposte varianti, ma anche un senso più allargato di incontro e di civile sorellanza. E un’idea di amicizia che si sviluppa in eredità scomoda e ricalcolo di sé a fronte delle rivelazioni che la lealtà ha fruttato. E c’è l’attenta ricognizione di un’altra eredità: il passaggio dalla civiltà contadina con le sue ricchezze e le sue miserie, la saggezza e le superstizioni, la sapienza e l’ignoranza, alla nostra vita di oggi, iperaccessoriata eppure spiazzata inesorabilmente dalle notizie di fondo su di noi e sul nostro stare al mondo e maldestramente muoverci in esso. Come in AfterLife, delicata serie inglese scritta e diretta da Ricky Gervais, un ricco materiale scritto registrato e filmato viene lasciato da Clara, amica morta di cancro, a Lorena, ma non è lei in prima persona la destinataria di quel lascito: in realtà il compito affidato a Lorena è di recapitare tutto questo alla compagna e ultimo amore di Clara, dopo una vita da madre e moglie, abbandonata come la più recente, per non infliggersi come malata terminale ai suoi più grandi affetti, figli compresi. Le rivelazioni che questi materiali contengono mettono Lorena di fronte a sé stessa, alle proprie ordinarie convinzioni, al senso di scandalo che la colpisce e le fa rivedere tutta una vita in cui ha edificato i suoi affetti e le sue relazioni secondo linee condivise e, soprattutto, tradizionali, e provinciali. Ripercorrendo alcuni passaggi nodali della sua infanzia e del rapporto con sua sorella, Lorena scopre il tradimento di sua madre nei confronti di loro due bambine. Scopre la grande ingiustizia che ha segnato tutta la loro vita, e in questa luce rivede e ricomprende la sua attività di volontaria al centro parrocchiale di accoglienza dove padre Alfonso è anche il grande amore di Lorena.

Proprio sul fronte dell’amore, dopo alcune mortificanti avventure, Lorena impara che il primo vero cambiamento da fare è rimuovere le apparenze, spogliarsi e spogliare l’altro d’ogni abito: è lo scoglio più duro, la vera corazza che vestiamo. Lorena ci mostra come un gesto di solidarietà molto semplice può generare un sentimento tenace e come la vera dignità dell’altro sia non nell’abusare della solidarietà ricevuta ma nel lasciare appena prima che tutto scivoli in un altro cliché comodo per tutti. La scrittura anche in questo libro è una chiave potente della sua incisività di lettura. La lingua è precisa e insieme generativa e polisemica, fortemente evocativa: una lingua non solo della prosa narrativa ma anche della poesia, non per cieco o automatico slancio lirico, ma per musicalità, per forza d’accensione di immaginari infiniti, per stratificazione e apertura del dettato. Cosa rimane non è solo ciò che resta di quanto Clara ha lasciato in eredità per la sua ultima compagna, e del vero significato dell’amicizia ereditato da Lorena, ma allude anche al suo riesame di una intera vita e alla ricomprensione del senso autentico di tutto ciò che fin qui era stato annusato come mistificatorio e adesso è visto finalmente nel suo vero significato. È la conquista di una coscienza, e un cambiamento di stato. Ed è raccolto dell’essenziale.


Accanto al titolo, Lina Volonghi in “Madre Courage e i suoi figli” di Bertolt Brecht con la regìa di Luigi Squarzina, 1969

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