Danilo Maestosi
Un'iniziativa del Maxxi di Roma

Nell’antro di Balla

Apre al pubblico Casa Balla, la dimora romana del grande pittore, trasformata in un laboratorio perenne della sua sperimentazione in tutti i campi dell'arte e del design. Visitarla è come entrare nella mente dell'artista. Ma anche nella "prigione" della sua creatività

Riapre Casa Balla. È l’appartamento romano al quarto piano di un anonimo caseggiato di via Oslavia, una traversa di piazza Mazzini, dove il pittore trascorse gli ultimi 30 anni della sua vita insieme alle figlie Luce ed Elica. E con il loro aiuto, trasformò l’appartamento in uno straordinario laboratorio di arti applicate, che inseguiva lungo tutti i possibili versanti della creatività, dalle pareti e dai soffitti affrescati ai mobili d’arredo, dai lampadari ai tasselli di maiolica. Dando corpo al progetto, teorizzato insieme al suo allievo Fortunato Depero, in un manifesto del 1915, di espandere il campionario di forme e colori del movimento futurista ad ogni oggetto, ogni materiale e ogni istante di vita vissuta. Un catalogo di invenzioni artigianali che ha rivoluzionato la grammatica del design.

È un tesoro davvero unico che per la prima volta, nella ricorrenza dei 150 anni della nascita del pittore, torinese trapiantato nella capitale allora in gestazione, viene offerto allo sguardo di tutti.

Troppo tardi sicuramente: decenni di polemiche e attese che non sono riusciti ad impedire che buona parte di quel patrimonio, sigillato nel 2004 da un vincolo delle Belle Arti poi neutralizzato da un lungo contenzioso giudiziario, fosse smembrato e disperso. E con un esperimento a tempo di visite guidate, a pagamento: l’apertura durerà solo fino a novembre, ingressi centellinati a non più di 8 persone a turno, obbligo di prenotazione per giorni e fasce orarie, con una lista già sovraccarica di richieste.

Ma è comunque un passo avanti che fa evento da non mancare: merito di un accordo di collaborazione tra la soprintendenza e il Maxxi di via Guido Reni, che per l’occasione ha inaugurato una mostra dedicata a Casa Balla, che mette a confronto un campionario di arredi, abiti, disegni e schizzi progettuali, provenienti da via Oslavia con le opere commissionate a 8 artisti contemporanei che a questa dimora-museo si sono ispirati.

Fascinosa la parata di originali sottratti a quel contesto in un isolamento da cimeli che certo disperde un po’ la loro magia, ma ne agevola la lettura, e ne evidenzia l’unicità. In primo luogo la sperimentazione plastica e decorativa di materiali poveri di ogni tipo: legni, fili elettrici, corde, carte e cartoni, plexiglass. In secondo luogo l’uso spudorato, dimamico del colore.

Ecco la sinfonia di rossi, gialli, arancioni di varie tonalità solcata da intarsi di celeste e di verde a simulare voli ad ali spiegate di un arazzo nel quale irrompono in scena tre pappagalli. Ecco il contrappunto di verdi e gialli squillanti dei mobili della sala da pranzo: tavoli e sedie che affondano i piedi in un tappeto di onde variopinte. Ecco i morbidi intarsi di linee curve e campiture aguzze con cui Balla disegna abiti, giacche, gonne, ventagli, borse.

Altrettanto inedita la combinazione di improvvisazioni formali astratte e irruzioni figurative, incastri, aggetti, sporgenze, vuoti che impreziosiscono con bizzarre impennate di gioioso stupore la vista e l’uso di mobili e soprammobili, saldati insieme senza l’uso di chiodi o di colle. Con una tecnica di interventi da bottega artigiana che rende ogni pezzo unico e irripetibile, sottraendolo alla riproduzione seriale, e dunque al suo sfruttamento commerciale.

Un capovolgimento delle regole di sintetico rigore e riproducibilità del modernismo che negò a Balla un ampio successo di pubblico e di cassetta, ma oggi lo incorona tra i più geniali innovatori del Novecento. E ne stimola e ne inquadra le imitazioni nel settore in perenne fibrillazione del design, come quelle riassunte qui in mostra da tre opere: le spaesanti vertigini ottiche di nastri intrecciati di vinile bianco e neri con cui Jim Lambie tappezza l’ascensore che porta al piano d’esposizione; il tavolo montato su cavalletti traslucidi di Cassina; i saggi di alfabeto visivo di Leonardo Sonnoli.

Il rischio di questo copione di omaggi è di attribuire alla funambolica fantasia creativa di Futurballa molto più della ricerca di stupore, gradevole spaesamento, magia che il maestro insegue e teorizza travestendo con gli echi visionari e le parole d’ordine del movimento la sfera visiva e la scena delle abitudini quotidiane legate all’abitare. Non l’allegria, che Balla mette in conto e cita esplicitamente come obiettivo nel suo manifesto, ma addirittura la felicità, profezia di calcolati inganni che oggi governa il regno del consumo, della pubblicità e del design industriale ma è estranea al suo approccio con il mondo.

A seguir questa traccia il pericolo è di tradire con la biografia dell’artista anche lo spettacolo che oggi Casa Balla ci sgrana davanti. A offrirci una via d’uscita da questo labirinto di suggestioni devianti interviene per fortuna la meno festosa delle opere imbandite dal Maxxi per l’occasione. È il video girato da una coppia di cineaste, Ila Beka e Louise Lemone. E sigillato da un titolo, che è già in sé un invito ad una attenzione meno pigra e scontata: «La grotta del futuro anteriore». Una forma verbale desueta che ci spinge a misurarci con un futuro che è già stato eppure si offre allo sguardo, ci interroga come una rovina viva. Dieci minuti di riprese in notturna: le due filmaker che si aggirano per Casa Balla, con lo stesso spirito di meravigliosa e incerta avventura degli scopritori dei graffiti di Lescaux, piccoli fasci di luce che esplorano il buio isolando i segni lasciati da un linguaggio misterioso eppure immediato e folgorante come quello dei pittori delle caverne.

Lo sbalzo di un soffitto rosso fuoco, le creste mostruose di un paralume che sembra spiccare il volo nel buio come un pipistrello, un grappolo di lampadine che si agitano come tentacoli, le sghembe chiazze colorate ritagliate su una giacca che sbuca da un armadio come un fantasma, le sagome di tortuosi cavalletti vuoti che sembrano evocare una danza di scheletri. Non è un gioco troppo sofisticato. Prendetelo come un prologo che può prepararvi alla visita dal vivo a Casa Balla. Con una raccomandazione a concentrarsi sui dettagli perché è lì che il talento di Balla e della sua bottega di famiglia ha lasciato tracce più autentiche e parlanti. E un rimando simulato alla notte come spazio liberatorio dei sogni, perché di sogni e a volta di incubi sono tessute le storie che Casa Balla oggi ci racconta. O ci lascia intuire.

L’impatto della visita guidata alla luce del giorno può essere deludente. Soprattutto per chi come me c’era già stato, oltre trent’anni fa per un breve colloquio con Luce Balla, e ne serba un ricordo diverso. Di un luogo ancora vivo e sovraffollato di immagini. Le stanze piene di mobili, invase di quadri, schizzi, disegni, immersi in un disordine operoso di cui a tanti anni dalla morte di Balla si coglieva ancora la presenza e il respiro. Ora di quel curioso scrigno non è rimasto che il guscio. Ad accoglierti è il vuoto di una grande sala imbottita di cavalletti che esibiscono solo la loro bizzarra fattura, un busto del pittore modellato da Prini a inizio Novecento, il ritratto a carboncino di un’amica dell’epoca.

Meglio concentrarsi sul corridoio, che subito dopo il trasloco in via Oslavia, il pittore foderò con un’armatura di legno, spezzata da panche, nicchie, armadi, rientranze e poi decorò con una fascia di colori morbidi e intrecciati, che moltiplicavano i loro ricami sul soffitto.

Quel congegno di finte pareti è sormontato da una serie di pannelli quadrati: un catalogo che racchiudeva il meglio del geniale vocabolario con cui Balla condensò in segni, vortici e volumi astratti l’inseguimento al mistero dellà velocità, della luce, del cosmo, che lo incoronò come caposcuola indiscusso del Futurismo. Capolavori finiti all’asta, e sostituiti per nascondere il vuoto da altrettante copie recenti, immobili e fredde nella loro smaltata perfezione di cloni.

Anche gli originali, comunque, tutti dipinti a cavallo tra la fine degli anni Dieci e degli anni Venti, nella sua prima vecchia sede ai Parioli, erano probabilmente un testamento che il suo orgoglio di pittore si lasciava alle spalle, come prova di una missione compiuta per cancellare le diffidenze con cui Marinetti e compagni, persino i suoi allievi Boccioni e Severini, lo avevano accolto e cooptato. Il presagio di un ritorno all’ordine che si consumò proprio qui in questo casermone di via Oslavia, dove era stato costretto a trasferirsi per la demolizione della sua prima e più ampia dimora, teatro dei suoi maggiori trionfi. E dove certificò il suo distacco dall’avventura futurista cui deve la propria fama mondiale. Prima nel 1934 con il dissenso da Marinetti, cui, da laico convinto, non perdonava il manifesto dell’arte sacra, stilato per adeguarsi alla svolta concordataria del regime fascista. Poi, in un articolo su una rivista del ’37 la sua esplicita abiura: la spinta innovativa del futurismo esaurita e precipitata in uno sfoggio di pura decorazione, l’ancoraggio alla figura come unica strada per raggiungere la verità.

Più che un mausoleo della sua gloria tra i grandi interpreti del Novecento, Casa Balla si trasformò così nel rifugio di un artista scontento e deluso. Assalito dalle pene della vecchiaia. Una tana non molto diversa da una prigione. E quelle decorazioni, quei gioielli di arte applicata che continuò a sfornare, anche per ragioni di cassetta, potrebbero in quest’ottica essere riletti come i graffiti che un detenuto incide sulle pareti della propria cella per misurare i giorni della sua presenza nel mondo. Una gabbia in cui da padre padrone, amorevole ma possessivo, Balla finì per confinare anche le sue due figlie, Luce ed Elica, che aveva educato e addestrato, e che gli rimasero sempre accanto, rinunciando a una loro autonomia. Come vestali di un Tempio ormai sconsacrato, di cui le stanze di via Oslavia, conservano ancora le tracce degli ultimi passi.

E molte tele che testimoniano il loro faticoso modo di rivendicare se stesse dopo la morte del padre, toccando i limiti del loro relativo talento. Luce dipingendo paesaggi di improbabile incanto, Elica provando a dar voce alle nuvole che solcavano il suo cielo. Ma queste sono altre storie, inspiegabilmente trascurate, che solo la sensibilità di altre donne potrebbe e dovrebbe provare a ricostruire e raccontare.

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