Cristiano Poletti
Il Ceppo in tre parole /5

Mano corridoio storia

Lo “strumento” che unisce mondo e anima. Il simbolo del transitorio e della ricerca. L’arco temporale delle nostre esistenze con la sua imprevedibilità… Elementi per Cristiano Poletti (Premio Ceppo Selezione Poesia) per dire poeticamente «ciò che vediamo» pur con l'inevitabile oscurità del linguaggio

Premio Ceppo Selezione Poesia 2021, Cristiano Poletti è uno dei tre finalisti al Premio Poesia che il 25 giugno vengono votati dalla Giuria dei Giovani Lettori. Come scrive Milo De Angelis nella motivazione, il poeta vince con la raccolta Temporali (Marcos Y Marcos 2019) che è «un viaggio nell’ombra della nostra vita, nella sua fragilità e nella sua incompiutezza, con un’ampia gamma di scelte espressive, che vanno dal tono colloquiale di alcuni testi a quello più lirico e verticale di altri. E questo viaggio ha la caratteristica di mantenere sempre vivo il dialogo con il lettore». (www.iltempodelceppo.it).

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Mano
La mano è simbolo dell’attesa. La mano tocca, sente, avverte, indica, stringe. È vita, eros, sempre in attesa di un riscontro decisivo: vorrebbe afferrare ogni cosa riportandone i segni distintivi nel suo palmo, pretendendo così di verificare, al tatto, il piano che Dio ha disegnato di noi sulla terra. Ecco, la mia mano è tesa a questo. Questo vorrei pensare, e che la mia mano restasse sempre aperta a un incontro. È la mia forma di preghiera. Penso non solo alla mano ma al corpo intero, il nostro corpo e alla sua chiarezza. Ma poi penso alla voce, che ne è parte, alla misteriosa anima del linguaggio; e quindi al corpo della poesia, ai suoi enigmi. Vorrei anzitutto riaffermare che corpo e anima non sono in alcun modo disgiungibili. Potrà apparire scontato e banale, ma non lo è.“Anima” è una parola molto difficile da pronunciare, un termine delicatissimo. Qui allora sento che debba intervenire una forza religiosa, non può essere altrimenti. Religione, nel suo etimo, significa guardare con attenzione e unire; io penso che quanto di più prezioso abbia animato il mondo, il nostro mondo, una volta perduto, dobbiamo riunirlo in noi soprattutto nello sguardo. Lì, in ciò che vediamo, tra un accadimento preavvertito e il suo compiersi, “io” e “mondo” non sono contrapposti. La mano è lo “strumento” che unisce mondo (del quale occorre ricordarci di non averne cattiva coscienza) e anima.Penso al Vangelo di Luca, 23,46: «Padrenelle tue mani rimetto il mio spirito»; e alle parole di Kierkegaard in apertura de La malattia mortale: «L’uomo è spirito… Lo spirito è l’io… L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno».Credo che la mano sia in fondo un’estensione dello sguardo, il tramite percettivo del mondo per eccellenza: consente di compiere il tragitto dallo sguardo al senso, permette in un attimo di cogliere la potenza di questa sintesi. 

Corridoio
Il corridoio è simbolo del transitorio e della ricerca: conduce alla stanza che cerchiamo, quel luogo che dobbiamo raggiungere o che magari desideriamo raggiungere, per rinchiuderci e ritrovarci, un vano che abbia dei limiti a noi noti, un confine chiaro. Il nostro sguardo è così, lo sappiamo, cerca un punto, o meglio un punto in un luogo. Cerca d’inquadrarlo, e per farlo ha bisogno di darsi dei confini, chiede di avere una cornice.L’io stesso è un luogo, “questo” luogo incessantemente cercato e in costante relazione con ciò che abbiamo d’intorno, con quanto ci circonda. Ecco, stanza e circostanza: siamo costituiti da questa relazione. Eccoci da essa plasmati, stretti in una concrescenza vitale. Certamente, l’esistenza e l’io che la abita sono transitori. Ciascuno di noi, inscritto nell’arco temporale della propria esistenza, è un episodio. Di nuovo, torniamo allo sguardo – nostro compagno – per capire che siamo noi stessi unpunto e abbiamo unae una sola finestra per guardare. Riprendo qui il passaggio per me cruciale di una lettera che Hölderlin invia a Böhlendorff nel novembre 1802:«Il temporale, non puramente nella sua massima manifestazione, quanto proprio in questo sguardo, come potenza e come figura, nelle altre forme del cielo, la luce in atto, nazionale e come principio e formante un modo del destino, il fatto che per noi è qualcosa di sacro, il suo impeto nel venire e andare, l’elemento caratteristico delle selve e il trovarsi insieme in una regione di differenti caratteri della natura, il fatto che ogni luogo sacro e la luce filosofica alla mia finestra è ora la mia gioia; che io possa serbare, come sono arrivato fin qui!».Se intendiamo portare in poesia ciò che vediamo, dobbiamo necessariamente racchiuderlo nell’oscurità, ineliminabile, del linguaggio. Percorriamo dunque i corridoi, cerchiamo quella sola finestra fondamentale che porti “luce filosofica” ai nostri giorni, che dia senso alla scrittura.

Storia
La storia, anche, è fatta di corridoi ed è segnata dai confini. Dentro il suo grande libro c’è l’arco temporale delle nostre esistenze. Di quest’arco, sento che contano soltanto il lampo, lo scarto, lo scatto, il salto, la rottura; soltanto il versante più ripido della montagna, dove si manifesta il dato folgorante ed è, insieme, donazione di sé e donazione di senso. Credo che al centro della storia possiamo porre, come al centro della poesia e della vita, l’imprevedibilità. Scrittura e comprensione della storia avvengono tramite “corridoi”, scelti, o che qualcun altro ha scelto per noi. Tuttavia, con l’esperienza e lo studio, abbiamo la possibilità di “reinventarne” almeno in parte i contorni. Mediante salti di tempo e nuove associazioni di fatti e idee, portiamo luce su dettagli e destini prima oscuri.Ho sempre pensato, in tal senso, che sia bene utilizzare i fatti “per esserne contro”, guardare cioè con attenzione alle traiettorie temporali più ampie e ai nodi simbolici che vanno ben oltre la storia evenemenziale. Guardiamo con più attenzione, voglio dire, a corsi e ricorsi storici in cui sono incastonati, essenzialmente immodificati nei secoli perché “intemporali”, i destini degli umani. Penso di nuovo al corpo e al corpo della poesia. Serve evocare, nella storia, il destino di alcune individualità; evocandone la parabola, questi destinisono “chiamati fuori”, letteralmente, dalla storia. La violazione di un confine, il sacrificio pagato con la vita; si tratta di un silenzio compiuto ed estremo, un alto atto di solitudine accaduto in una dimensione che affonda nel passato eppure affonda nel sempre. Poteva essere il Muro di Berlino, fino al 1989, ed è come ogni barriera di un passato più lontano, e di un domani. Mi resta caro questo passaggio di versi di Mario Luzi, tratto da Primizie del deserto: «il tempo ci dà vita e ci distrugge / mentre immobile vigila l’essenza».

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