Nicola Fano
A proposito di "io, testimone"

L’affaire Morandi

Marilena Pasquali, massima autorità morandiana, racconta la storia della nascita e della morte del Museo Morandi a Bologna. Una tipica storia italiana, in cui l'arte e la cultura da risorsa identitaria diventano un intralcio agli affari e alla politica

«Che cosa è successo a questa città (Bologna, ndr), che cosa le abbiamo fatto per farla cambiare tanto, per trasformarla in una sonnolenta, distratta, indifferente città uguale a tutte le altre?». Trovo questa considerazione amara e dolente, per altro scritta tra parentesi, in un libro di Marilena Pasquali (io, testimone, Noèdizioni, 136 pagine, s.i.p.) che racconta la nascita e la morte del Museo Morandi a Bologna. Ma che è quasi un romanzo della nostra decadenza civile. Una storia emblematica che va raccontata per bene.

Marilena Pasquali, oltre ad essere una delle massime esperte dell’arte di Giorgio Morandi, è colei che più si è spesa, sul finire del millennio scorso, perché la figura del pittore bolognese s’imponesse in modo definitivo nel mondo come uno dei massimi del Novecento. È stata lei, Marilena Pasquali, a fondare l’Archivio e Centro Studi Giorgio Morandi, a Bologna, nel 1982; lei a gestire la donazione di dozzine di opere di Morandi al comune di Bologna, nel 1991, da parte della sorella del pittore, Maria Teresa Morandi, e lei – infine – a aprire, allestire e curare il Museo Morandi a Palazzo d’Accursio, nel 1994. Un’avventura culturale tramontata all’alba del nuovo millennio, quando il Museo Morandi è stato smantellato e le opere dell’artista bolognese trasferite nel neonato Mambo, il museo di arte moderna di Bologna nel Palazzo dell’Ex Forno del Pane, alle spalle della Stazione centrale. Una parabola che riflette non solo le vicende culturali della città («che cosa le abbiamo fatto per farla cambiare tanto?») ma direi anche l’ascesa e il tramonto della cultura in questo nostro disgraziato Paese.

Il libro di Marilena Pasquali, dunque, è una ricostruzione fedele – supportata da numerosi documenti, naturalmente – non soltanto delle coincidenze politiche che hanno portato (sotto il segno dell’allora sindaco Renzo Imbeni) al sodalizio istituzionale tra la città e Maria Teresa Morandi, culminato con la donazione delle opere, ma anche dell’operato certosino di quanti si sono spesi perché, appunto, la città aprisse alla grande cultura la sua identità, facendosi specchio e culla al tempo stesso di un tormento creativo che proprio da Bologna ha coinvolto il mondo. Insomma: qui c’è il racconto di come una comunità abbia miracolosamente deciso di considerare l’arte a la cultura un tratto della propria identità sulla quale puntare per imporsi al mondo; e di come, poi, la medesima comunità abbia impietosamente stabilito di lasciar perdere. Di fare a meno del Museo Morandi. Di far a meno della cultura, ché, tanto, non interessa più nessuno

È questo, il terribile romanzo scritto da Marilena Pasquali nel suo libro: per una volta non un saggio critico (dei numerosi che ha pubblicato, nel tempo), ma una storia di politica culturale che illumina in modo sinistro il nostro Paese. Al punto che oggi, 2021, la più ricca collezione di opere di Giorgio Morandi è un po’ affastellata in un’ala del Mambo, senza più una sua identità né espositiva né critica. Il memoriale di Marilena Pasquali espone fatti concreti e non giudizi personali ma chi – come chi scrive – abbia visitato prima il Museo Morandi in Piazza Maggiore e più di recente il museo all’ex Forno del Pane di Bologna sa quale sia stata la perdita subita dalla città con questa incredibile vicenda. Sembra sia peculiare del nostro Paese, infatti, calpestare con fastidio i propri tesori, liberarsene quasi con rabbia, come se l’arte e la cultura non fossero il nostro (unico?) vero patrimonio identitario, ma piuttosto un ostacolo alla piena realizzazione di un modello sociale globale piatto, incolore, dominato solo dal profitto e dai presunti valori che esso promana. La sensazione che si ha, arrivati alla fine del racconto di Marilena Pasquali, è che Morandi sia stato vissuto come un intralcio, da una parte almeno delle istituzioni bolognesi del nuovo millennio, piuttosto che non una risorsa. Un ostacolo alla visibilità e al successo di politici inetti, di presunti esperti d’arte innamorati solo di sé e del proprio potere.

È precipitando su questa china, dunque, che forse possiamo rispondere alla domanda fatta tra parentesi da Marilena Pasquali («Che cosa abbiamo fatto a questa città?») allargando l’interrogativo a tutto il Paese, a tutta l’Italia. La risposta è che abbiamo calpestato la sua identità svendendo per due lire ciò che siamo stati per millenni. E lo abbiamo fatto con rigore, con tenacia, nella convinzione che solo nell’ignoranza, solo nel cattivo gusto ci sia la felicità del futuro. Ovunque si volga lo sguardo, in questi tempi, all’indirizzo di istituzioni culturali si percepisce che quanto una volta era florida fucina di idee, ora è vissuto solo come un comitato d’affari.

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