Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Miti personali"

Il passato venturo

Matteo Marchesini insegue i miti, da Enea a Achille, da Orfeo a Didone, per arrivare alla conclusione che il loro tempo non è più il nostro tempo. E l'unico modo per onorarli è trasformarli in qualcosa di personale: tutto il contrario del mito, insomma

Comincia con un atto mancato la raccolta di racconti Miti personali di Matteo Marchesini, edita per i tipi di Voland (pagine 140, 13 Euro), anzi con due azioni che non raggiungono l’effetto desiderato o il risultato che sarebbe stato lecito aspettarsi. Nel racconto che ha titolo Poesia (il primo dei sedici che compongono il libro, alcuni dei quali brevi o brevissimi, distribuiti in due sezioni, la seconda composta da un solo testo), Orfeo si volta per sincerarsi della presenza di Euridice, ma dietro di sé non c’è nessuno. La ninfa, forse del resto non più divinità degli alberi ma già declassata al ruolo di essere umano, più scaltra o forse solo meno interessata a riprodurre un copione noto, è già arrivata a destinazione. Orfeo può solo inseguirla. A nulla valgono la sua corsa, né il pronunciare il nome dell’amata in mille modi, incastonandolo “nei metri più dolci e più solenni”. Il celebre cantore è destinato invece a scivolare all’indietro, “sempre più indietro, finché scompare nell’inferno notturno di una città che non è più sua”.

Marchesini insomma ci dice che la poesia che ha celebrato i miti e se ne è cibata, quella che in fondo sorreggeva il mondo e lo rendeva possibile con la forza della leggenda, da tempo non è più praticabile. La modernità non solo ci ha messo di fronte alla impossibilità di credere ai miti, e quindi di raccontarli, ma di credere tout court. La poesia è un Orfeo ricacciato nell’inferno della città (lui, non Euridice, si perde negli inferi), che non può più nemmeno contare su se stesso. In qualche modo il libro sui miti di Marchesini si apre con la dichiarazione di un fallimento, o se si vuole con la costatazione che il poeta è parte di una battaglia che non può avere riuscita, di un inseguimento più che di una scoperta. La poesia è accertamento della disfatta più che strumento di salvezza.

Del resto Miti personali è un titolo che suona, a suo modo, come un ossimoro. Un mito infatti, se è tale, deve essere in grado di esprimere un sentimento comune, di raccontarci qualcosa che ci riguarda, che riguarda tutti noi, genere umano, comunità, uomini e donne che vivono nella stessa epoca o nella stessa condizione. Il mito è collettivo per definizione. Nell’indicare come materia del libro i miti personali, Marchesini sembra voglia affermare qualcosa: ci mette certo sull’avviso che non si tratta di una rilettura o di una rielaborazione delle narrazioni da tutti conosciute, e questo è, entro certi limiti, vero, ma ci dice anche che il contenuto dei racconti riguarda lui solo, è vicenda da circoscrivere nell’ambito ristretto della sua esperienza appunto personale. È ovvio che su questo non possiamo dargli credito, se non in parte: si tratta in fondo di un depistaggio.

Una delle situazioni ricorrenti in Miti personali è proprio quella dell’atto mancato (vale la pena ricordare che Atti mancati è il titolo del romanzo di Marchesini pubblicato nel 2013). Enea, che nel racconto significativamente intitolato Storia è fotografato nel momento topico in cui fugge da Troia con il figlioletto Ascanio e il vecchio padre Anchise, vede tutto il futuro, come un grande affresco, davanti ai suoi occhi e sceglie di sedersi e di restare “rinunciando al mondo”, perché “nel deserto di Troia vede la sua terra promessa”.

Il mito in effetti è anche il luogo da cui non si parte, del “tempo incantato”, come quello in cui Ettore ed Achille “continuano a scivolare” (non sfugga che è il verbo utilizzato anche a proposito di Orfeo, per indicare la sua marcia all’indietro), destinati per sempre a correre, in un carosello pazzo e sempre più rallentato, uno cercando di fuggire, l’altro nelle vesti di inseguitore, entrambi costretti (il racconto è Fine dell’epica, appunto) ad assistere al susseguirsi delle stagioni, degli anni, delle epoche, sapendo che sarebbe comunque rimasto un vantaggio impossibile da colmare, in una competizione senza fine, ridotti a “mere varianti dell’Uno, che aveva voluto dividersi per gioco e farsi amorosa guerra”.

Miti personali è forse soprattutto un libro sul tempo. Sull’impossibilità di comprendere fino in fondo il rapporto esistente tra passato e futuro, sul “tempo incantato”, che è, come si diceva, il tempo del mito e dell’epica, ma anche il tempo della sospensione, degli eventi che dovrebbero accadere – lo sappiamo, è sempre andata così (Enea deve partire da Troia, ha davanti a sé l’Africa, l’amore di Didone, l’Averno, il Lazio e tutto quello che segue; Achille deve uccidere Ettore) – e invece, in questo libro, rimangono come impaludati, non riescono a farsi Storia, nemmeno a diventare Mito (collettivo), vengono colti in quel momento in cui ogni cosa è ancora possibile, ma il futuro diventa di fatto irrealizzabile. Del resto Enea, come viene detto, “fondò la religione che ci libera dal Fato”.

Questo tempo della sospensione e dell’attesa, che tanto ci fa pensare alla nostra condizione di essere umani, mette anche i personaggi del mito di fronte a se stessi, offre la possibilità di liberarsi da quello che tutti gli altri vorrebbero da loro. La prima volta che Narciso scopre il proprio volto, in effetti conosce gli altri, li vede finalmente per quello che sono, conosce la diversità e il mondo, e il male del mondo. L’arciere Filottete, che possiede le frecce e l’arco di Eracle, e a questo pare debba la sua straordinaria abilità nel colpire, si ritrova a volere, nel momento in cui sente le forze venirgli meno per una piaga che non si rimargina, di “essere guardato come un arciere qualunque”, di non essere insomma più un mito: “vorrei che non mi si chiedesse niente di speciale, e non mi si curasse perché io vi curi”. Anche Cristo, ormai sulla croce, mentre ripensa all’unico evento dell’infanzia che riesce a ricordare a che lo tormenta, quando ha tradito Giuseppe e Maria, alza gli occhi al cielo e scopre che “il cielo bianco è vuoto”, e lui non ha più nessuna frase da pronunciare, prova solo “il sollievo di essere abbandonato e di poter finalmente abbandonare chi lo guarda”. Il tempo incantato è anche quello dell’infanzia e dell’adolescenza, il tempo che rimane sempre con noi.

Marchesini racconta le sue storie (a parte l’ultima che fa storia a sé) come le ascoltasse da una voce esterna. È come se il narratore non vedesse quello che accade, ma lo conoscesse attraverso il racconto di altri. È una narrazione estremamente lineare e chiara, nella quale però si condensano, come nei sogni, situazioni e vicende diverse, a volte perturbanti.

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