Danilo Maestosi
A Palazzo Barberini, a Roma

L’arte del Tempo

Per l'apertura di una nuova ala della Galleria d'Arte Antica, arriva una bellissima mostra a tema: “Il Tempo barocco”. Una sequenza di capolavori, da Antoon Van Dick a Guido Cagnacci, passando per Bernini, nei quali gli artisti cercano di cogliere il senso del Tempo

Sarà perché l’occasione, da cronista di questa città – Roma – così lenta a mettersi in moto, è davvero speciale: l’inaugurazione come sede d’esposizione dell’ala al pianoterra di palazzo Barberini occupata dal circolo ufficiali, dopo oltre mezzo secolo di battaglie per liberarsi di quello scomodo e improprio condominio e un decennio per restaurarla. Originale l’idea di aprire la festa, rivisitando l’antico dalla balconata di un’esperienza a portata di tutti come quella del tempo.

Sarà questo risveglio di primavera dopo il lungo inverno del Covid che ha dilatato la percezione dell’attesa e il bisogno di vie d’uscita meno scontate del ritorno al com’era prima. Sarà perché non condivido le profezie di morte che investono l’arte, di oggi e di ieri, il senso della Storia e la sopravvivenza dei musei. Sarà perché credo che per cambiar direzione e opporsi a questa deriva ogni museo, soprattutto uno scrigno d’antichità come quello nato nella dimora dei Barberini alle falde del Quirinale, non debba rinnegare se stesso, ma interrogarsi sui tesori che custodisce e sulle domande che, a farli parlare, non solo per gli addetti ai lavori, sono in grado di porci. Ed è in questa direzione che la cabina di regia della galleria nazionale passata insieme alla Galleria Corsini alla Lungara nelle mani di Flaminia Gennari sembra muoversi con sempre più convinzione. Sulla scia di quanto già avviene alla Galleria Borghese sotto la direzione di Fracesca Cappelletti, che ha ideato questo viaggio espositivo nel tempo e ne condivide la cura con la Gennari.

Sarà perché, invecchiando, ho visto le bussole della fantasia spostarsi dalle suggestioni dello spazio, la dimensione di continue scoperte del viaggiare, verso l’asse di altrettante stupefacenti scoperte della memoria.

È, insomma, questo cumulo di ragioni personali e oggettive che mi spingono a classificare la mostra «Il Tempo barocco», in programma fino a ottobre, con le altre che l’accompagnano in cartellone, tra gli eventi da non mancare. E Palazzo Barberini tra i musei da tener d’occhio, perché indirizzato verso rotte e pubblici diversi dalla solita platea di turisti e visitatori smossa dall’omaggio al già visto.

Un progetto che ci lascia intuire già il titolo dell’iniziativa, che portando in primo piano il tema del tempo, racchiude un forte richiamo all’attualità, ma ci avverte immediatamente con quell’aggettivo, «barocco», che la licenza a sconfinare ci obbliga comunque ad attraversare i confini segnati dalle opere e dall’epoca in scena.

Lo conferma lo sviluppo molto narrativo dell’esposizione, scandito in cinque diversi capitoli, ognuno dei quali declina con prospettive diverse il modo in cui il motivo conduttore del tempo viene assorbito, interpretato e vissuto dagli artisti e dalle corti europee dalla controriforma in poi. Rivisitazione rinvigorita da un primo colpo d’ala che affianca ai quadri, una quarantina, spostati o ottenuti in prestito, uno splendido campionario di orologi decorati. Efficace trovata per sottolineare l’intreccio di scambi e suggestioni tra le oscillazioni del gusto e la scienza, che proprio in quell’epoca scopre nuove tecniche per misurare con la massima precisione il corso degli istanti e confezionare calcoli e leggi sempre più razionali per inseguire il movimento della Natura e del Cosmo, lanciandosi a proprio rischio oltre le barriere della teologia e le cinture di protezione dei papi mecenati che li sostengono. Dietro ogni orologio il fantasma di Galileo, le sue scoperte e le sue umiliazioni. Libero chi guarda di stabilire relazioni e rimandi con il presente. Favorito da un secondo colpo d’ala. L’idea guida di estendere i confini del campo d’indagine oltre quelli canonici assegnati alle arti visive e al barocco, in una visione della cultura come un tessuto continuo di relazioni, balzi in avanti e all’indietro, e non solo come un susseguirsi di discontinuità e di fratture: le citazioni che segnano in alto sulle pareti il passaggio di sala in sala non esitano a prendere in prestito le riflessioni di Goethe e persino di uno scrittore del secondo Novecento come Bruce Chatwin.

A legittimarci anche un terzo inserto in copione. Il prologo riservato a commemorare la leggendaria e incompiuta impresa di uno studioso tedesco, Aby Warburg (1866-1922), il quale, convinto che le immagini sopravvivano e scavalchino il proprio tempo, cominciò a costruire e ad organizzare per tema un Atlante della memoria iconografica. Il richiamo alle vertigini, per qualcuno agli incubi, del nostro oggi e del nostro futuro alle porte, sommerso di immagini sovrapposte senza gerarchia di date e di qualità, è tutt’altro che casuale.

Poi certo c’è l’impatto in presa diretta col racconto delle opere in mostra, che con rigore, ti ancora a un’esperienza di immersione totale nello spirito, nelle intenzioni, nei capricci, nella fantasmagoria di invenzioni e varianti che caratterizza l’arte dei maestri barocchi.

Il primo capitolo ruota attorno a due ossessioni, due strategie culturali che mettono a dura prova la creatività degli artisti. L’obbligo di confrontarsi con la fuga del tempo senza perdere il contatto con il mondo e dissolvere la lezione dell’età classica e del Rinascimento. Risolto come dai maestri e dagli intellettuali d’allora? Con una riscrittura del mito. Crono/Saturno non è più il nume imperscrutabile, impietrito e ottuso che per non essere scalzato divora i propri figli. Ma un vecchio incattivito che lotta contro un altro nemico: la passioni e le trasgressioni d’Amore. Cupa ma indimenticabile la tela con cui Antoon Van Dick, (nella foto) un fiammingo che ha trovato in Italia il proprio trampolino di lancio, raffigura la sua spietatezza, mentre afferra un Eros bambino e si appresta a tagliargli le ali. Lo stesso controcanto di oscurità e di dolore che avvolge l’allegoria delle quattro età dell’uomo, ambientata da Valentin de Boulogne in una taverna caravaggesca: nessuno sorride, disperata anche la smorfia del bambino giù in basso che stringe la le mani una gabbia vuota.

C’è un altro compito pregnante, quasi una compensazione dovuta che la rilettura barocca assegna a quel Saturno con le ali da Angelo e il volto scavato da profeta: scoprire la Verità nascosta e rivelarne il messaggio salvifico. Un salto iconografico su cui si cimenta un padre fondatore della plastica barocca come Bernini. Quale e dove sia l’approdo della Verità da trovare ce lo indica un terzo cimelio, uno splendido orologio, congegnato per le ore notturne, che incasella giù in basso una scena della Fuga in Egitto.

Nel capitolo successivo il tema dell’Amore si ribalta: imprevedibile certo quel monello che infiamma i cuori con le sue frecce, ma irresistibile e irrinunciabile per la forza che lo guida e le emozioni impreviste che regala. Insomma un vincitore spavaldo, fissato in un modello immortalato da Caravaggio, in un capolavoro che è stato impossibile ottenere in prestito, ma è qui ripetuto da altre varianti di pittori di rango. Ed esaltato in una versione più semplificata, da un putto alato che domina la cima di un orologio, cui fa da piedistallo un Saturno che in gesto di resa depone la sua falce.

È nell’abbraccio dell’allegoria che la cultura e l’arte barocca trova la tregua alle ansie contraddittorie del dubbio se corrergli dietro o fermarlo con cui il confronto con il Tempo lo incalza. E il suo approdo formale più innovativo. Un deflagrare della figura nello spazio, in un moltiplicarsi di effetti, giochi d’illusione, simultaneità di narrazione, che trova la sua summa programmatica nel gigantesco affresco della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona: non fermatevi allo schizzo che ne riassume fedelmente l’aspetto, la vista dal vivo di quella abbacinante volta dipinta al piano superiore è impagabile.

Un capolavoro immortale, ma anche un congegno di raffinata affabulazione imposto dal committente, il papa mecenate Urbano VIII Barberini, fondatore di questa dimora-museo. Esaltare la gloria e i fasti della famiglia non basta a esorcizzare l’orizzonte implacabile verso cui scorre la vita terrena. Non bastano quelle due figure virtuose, la Bellezza e la Speranza che un quadro di Simon Vouet, esposto nella stessa sala, fa scendere in campo contro il Tempo nemico: la prima a strappargli con un sorriso le armi, la seconda a frenare l’impeto di quel vento implacabile con l’aiuto di un ancora.

Anche la Fede, per imporsi, deve evocare la vanità della vita: ecco nella penultima sala le tenebrose nature morte del tedesco Christian Berentz avvolgere di eleganza e di lusso da ultima cena il senso della sfida perduta con il tempo di una mensa imbandita. Ecco, lì a fianco, a rendere più esplicito il messaggio della Morte in agguato un orologio; uno scheletro che danza e con la falce indica sul quadrante l’ora o i minuti in arrivo.

Non si può arrestare la morte, al massimo fermare le immagini che ne raccontino il passaggio, inchiodare ogni rappresentazione di vita all’istante di un movimento, di un gesto che condensi l’intera storia, una battuta esemplare. Così si congeda questa mostra. L’arte che si fa teatro e anticipa la grammatica concitata del fumetto: forse la suggestione e l’esempio più forte che il barocco consegna al futuro. Ogni personaggio chiamato sul quadro a recitare un copione. Un brivido, un lamento, un’ingiuria, un ordine: il sovrapporsi di voci che anima il Ratto delle Sabine dipinto da Pietro da Cortona. O quel canone da coro, cinque ancelle in cerchio, ognuna una sfumatura diversa sul volto, dal dolore alla rassegnazione, con cui Guido Cagnacci dipinge la morte di Cleopatra (nella foto accanto al titolo).

A chi ama il teatro, palazzo Barberini offre l’appendice e l’attrazione in controcanto di un’altra mostra, che afferra il tempo per la coda con lo sguardo e il linguaggio di oggi. Dodici maestri della fotografia chiamati a raccontare l’Italia del covid, quella del coprifuoco totale di un anno fa. Immagini sgranate in varie stanze del museo e del parco. Piazze, strade, monumenti di borghi e città svuotate come teatri metafisici all’aperto, dove a fare spettacolo sono rimasti fondali, quinte e a contare le ore il movimento delle nuvole.

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