Nicola Fano
Al Teatrino di Via Vittoria di Roma

La mafia esiste

Piero Maccarinelli, con un gruppo di dieci, giovani e bravi attori, porta in scena ”Mafia“, un insospettabile testo politico di Luigi Sturzo. Un dramma d'azione che tende alla dimostrazione di un teorema terribile: mafia e Stato, a volte, coincidono

Bene, riprendiamo da dove eravamo rimasti: dal teatro.

Dopo interminabili mesi di buio, le luci si sono accese – per chi scrive – ieri pomeriggio nel Teatrino di Via Vittoria, a Roma, per illuminare un pezzo di storia d’Italia. Illuminare in senso proprio e in senso metaforico: sulla piccola scena – uno studiolo della nobiltà siciliana fine Ottocento, chiusa da quattro porte rosse – si dava un affascinante teorema teatrale niente meno che di Luigi Sturzo, il padre del Partito Popolare, capostipite dell’impegno dei cattolici in politica. Mafia, questo il titolo del copione datato 1900, è stato riscoperto da Piero Maccarinelli che lo ha allestito con un gruppo di giovani, bravi attori: Lorenzo Guadalupi, Athos Leonardi, Jacopo Nestori, Luca Pedron, Sebastiano Spada, Filippo Lai, Diego Giangrasso, Adriano Exacoustos, Paride Ciriello, Francesco Grossi. Dopo le repliche romane, fino a sabato, lo spettacolo sarà alla Pergola di Firenze (il Teatro della Toscana è coproduttore con l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico) per poi approdare su Rai5 a fine maggio. Non perdetevelo.

Don Luigi Sturzo

Prima di tutto, la sorpresa: don Luigi Sturzo è stato un religioso e un politico di specchiata fede, fece appello “ai liberi e ai forti” quando il fascismo era nell’aria e più avanti venne definito da Mussolini “il sinistro prete”, conquistandosi così la riprovazione del regime e l’esilio. Dalle ceneri della sua creatura politica, il Partito Popolare Italiano fondato nel 1919, nacque poi la Democrazia Cristiana che pure, rispettosamente, lo tenne a distanza. Figura di presbitero totalmente immerso nella società dalla parte dei più deboli (Sturzo nacque a Caltagirone nel 1871), fu portatore di una dottrina politica molto avanzata, per l’epoca, in materia di coabitazione tra interessi e necessità. In questa chiave di forte impegno sociale, Sturzo nel 1900 compose una tragedia in cinque atti intitolata seccamente Mafia che, fin dalla denominazione, suonò come un pugno nello stomaco: il termine mafia è comparso nel lessico ufficiale dei palazzi della politica italiana solo sessantatré anni dopo perché per lo Stato, fino alla storica istituzione della Commissione parlamentare del 1963, semplicemente la «mafia non esisteva». Per di più, in questo testo Sturzo prende di petto (e lo fa dire a chiare lettere a una sorta di narratore) l’omicidio Notarbartolo, una delle prime pagine nere della storia d’Italia.

Emanuele Notarbartolo, esponente della destra storica siciliana e direttore generale del Banco di Sicilia, venne ucciso da due manovali della mafia nel 1893. Un celebre deputato siciliano del medesimo partito di Notarbartolo, Raffaele Palizzolo, fu processato quale mandante dell’omicidio. Dopo una prima condanna a trent’anni di reclusione nel 1902, Palizzolo venne assolto due anni dopo per insufficienza di prove. Insomma, una tipica storia italiana. Fatta di politica, di corruzione, di criminalità organizzata, di minacce, di assassinii e di giustizia manovrata ad arte. Sebastiano Vassalli gli dedicò uno dei suoi romanzi più ambiziosi (ma non completamente riuscito), Il cigno, tirando in ballo, sullo sfondo, la figura di Francesco Crispi il quale, da Roma, avrebbe pilotato l’ostracismo nei confronti di Notarbartolo e poi la sua defenestrazione dal Banco di Sicilia.

Don Sturzo, il politico ispirato don Luigi Sturzo, affonda le mani in questo marciume prendendolo a pretesto (i nomi dei personaggi e le vicende sono di fantasia, ma la verosimiglianza del connubio stato/mafia è spaventosa) per costruire un dramma didattico, quasi alla maniera di Brecht. Se non fosse che Brecht è di qualche decennio successivo. Siamo comunque di fronte a un singolare caso di teatro politico. Il personaggio del narratore, cui si è già fatto cenno, prende il pubblico per mano e lo guida nel labirinto della corruzione e della disonestà con una dedizione didattica che non lascia spazio a dubbi: la mafia è connaturata a un pezzo rilevante della classe politica italiana. Non solo quella siciliana: perché è a Roma che il deputato che guida la congrega del malaffare bloccherà le indagini e aggiusterà i processi. Mentre in Sicilia il sindaco suo socio depreda beni e ricchezze pubbliche da spartire con i sodali politici e con la mafia.

Piero Maccarinelli ha preso questa materia di secca denuncia e l’ha messa in scena senza fronzoli, creando una sorta di spazio concentrazionario nel quale tutti (salvo la vittima, ovviamente) sono chiamati in correità in quanto titolari di interessi illeciti e complicità. Quello che poteva essere un oratorio teatrale, allora, si trasforma nelle mani del regista in un dramma teso e vibrante, condotto con un ritmo perfetto che, in un’ora e mezza, espone e risolve un terribile teorema di amara attualità.

In conclusione, assistendo a questo piccolo gioiello, forse sulla spinta dell’emozione per il ritorno a teatro dopo tanti mesi, mi veniva da pensare a come questo strano gioco di finzione sia poi lo specchio più fedele della nostra vita. E come la sua mancanza significhi il progressivo impoverimento del senso critico generale. E mi affioravano alla mente nomi sparsi: Pio La Torre, Vito Ciancimino, Piersanti Mattarella, Salvo Lima… Il teatro siamo noi.

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