Flavio Fusi
Cronache infedeli

Gli occhi di Gaza

La nuova guerra tra Hāmas e Israele ha i contorni di un confronto politico che drammaticamente dimentica (e calpesta) i diritti degli individui. Il problema non è nel riaprire il "tavolo delle trattative" ma da dove cominciare per dare un futuro a questo tormentato pezzo di mondo

Guardo questo breve video da Gaza – ce ne sono decine in rete, in questi giorni – e non riesco a staccarmi dalla verità che le immagini raccontano.  Al centro di un paesaggio desolato di rovine e macerie fumanti che nascondono l’orizzonte, una ragazzina parla al nulla e a tutti noi, mentre l’urgenza della sua disperazione combatte con le lacrime. Chiede e si chiede: «Ho solo dieci anni, cosa devo fare?». «Ho solo dieci anni, cosa devo fare?»: questo raccontavano – senza parole per dirlo – anche i bambini che venti anni fa accolsero la nostra troupe per le vie gonfie di rifiuti del campo profughi palestinese di Dheisheh. Sapete come vanno queste cose, tutti i giornalisti lo sanno: in questi luoghi di tormento, quando arriva una telecamera i ragazzi le corrono dietro, chiedendo piccole cose: una caramella, una penna, un taccuino dove scrivere. I grandi portano i più piccoli, e tutti fanno festa, gridano, vogliono vedere e farsi vedere.

Per noi inviati era una scena familiare. Pochi anni prima avevamo vissuto una giornata simile visitando le miserabili townships che circondano Johannesburg. Diversi certo, i colori – luminosi in Africa, polverosi in Palestina – ma identica la condizione umana. Condizione umana, appunto: per il vecchio Sudafrica bianco e razzista si è da tempo trovata la parola giusta: apartheid, cioè segregazione, separazione e controllo. Una parola che si stenta a sillabare per descrivere oggi i rapporti che regolano la convivenza forzata tra israeliani e palestinesi. Un termine proibito nel galateo ipocrita che vela la realtà del magma mediorientale.

Il divorzio – a volte il tradimento – tra la parola e la cosa che si vorrebbe descrivere è del resto antico come la storia umana. Nel Nicaragua dei primi anni Ottanta i rivoluzionari sandinisti vollero risolvere una volta per tutte il problema dei miskitos: una tribù indigena che viveva da sempre in miserabili condizioni nelle foreste della costa est. Ardimentose squadre di volontari costruirono così ordinati villaggi di legno e cemento, trasportarono lì i docili miskitos e per sicurezza alzarono tutto intorno barriere e reticolati. Il progetto fu chiamato “Tasba pri” che in lingua miskito significa “terra libera”, e “terra libera” rimase anche quando gli indigeni si ribellarono, travolsero le barriere e tornarono nella foresta. Questo per dire: la realtà vince sempre sulle parole che pretendono di spiegarla o negarla  o intrappolarla.  

Così, guardando il dolore di questa ragazzina, penso che quei miei bambini che correvano allora nella polvere di Dheisheh sono oggi trentenni infelici, a loro volta padri di numerosi figli che ancora sopravvivono dentro questi immondezzai, senza nulla conoscere e senza nulla sapere se non l’odio e il cieco risentimento della condizione a cui sono condannati a vita. Le parole che pretendono di descrivere questo abisso di dolore e frustrazione falliscono una dopo l’altra e restano come involucri vuoti sul palcoscenico di cartapesta delle garbate relazioni internazionali.

Per dire: il politico o lo statista che oggi vuol far bella figura invoca il ritorno al “tavolo delle trattative” e rilancia la parola d’ordine dei “due popoli e due Stati”. Magari qualcuno potrebbe suggerire a questi sventati che il mitico tavolo delle trattative non esiste più da anni, almeno da quando Netanyahu da una parte e Hamās dall’altra hanno lasciato a briglia sciolta il cavallo dell’apocalisse. E qualcun altro potrebbe eccepire che Stato significa terra, che senza terra non c’è Stato, e che la terra dei palestinesi da tempo non esiste più, mangiata occupata rosicchiata anno dopo anno, sfratto dopo sfratto, bulldozer dopo bulldozer, posto di blocco dopo posto di blocco. Nei libri di storia che nessuno legge sono elencati i 418 villaggi palestinesi scomparsi dal ’48 ad oggi. Lo Stato e il popolo palestinese sono da tempo come uno strano frutto senza radici: un guscio secco e crepato dentro cui cresce a dismisura un seme ipertrofico, malato e tragicamente vitale.

Da dove cominciare: ecco il problema. La radice di questa ultima crisi – occorre ricordarlo agli ignari – nasce dalla decisione del Tribunale di Gerusalemme di sfrattare numerose famiglie palestinesi dalle case che abitano da circa ottanta anni nella parte orientale araba della città. Quelle case – dice il tribunale – furono donate nell’antichità da re Abdullah di Transgiordania a una comunità di ebrei, e ai legittimi proprietari ebrei, agli eredi, devono tornare oggi.  

Immaginiamo un’identica situazione, a parti rovesciate. Venti anni fa fummo a intervistare un politico israeliano nella sua bella casa del quartiere di Abu Tor, nella parte occidentale ebraica di Gerusalemme. Quella splendida residenza era in origine un’antica casa araba appartenente a famiglie della borghesia palestinese, cacciate o fuggite da Gerusalemme dopo il 1948. Ah, ma queste sono fantasie! Troveremo mai un tribunale che chieda lo sfratto delle ricche famiglie ebree dagli eleganti quartieri di Baka, German Colony, Rehavia, Musrara? Ma allora, da dove cominciare? Se cominci dai diritti di proprietà ai tempi di Abramo o di Maometto, ci sarà sempre un prima-del-prima, e una casa, una catapecchia, una capanna, una grotta con la stella di David o con la mezzaluna musulmana per cui combattere e sbudellarsi senza pietà.  

Se la preistoria vince sulla storia – come è successo finora – non ci sarà salvezza per nessuno dei duellanti. Oggi contempliamo un fallimento, e l’ennesima carneficina di Gaza racconta questo fallimento. Diciamolo subito: gli uomini di Hamās che sparano migliaia di razzi contro le città del sud di Israele meriterebbero il giudizio davanti alla Corte internazionale per i crimini di guerra. Ma la compagnia degli aguzzini è ben nutrita, a queste latitudini. Sono aguzzini, per esempio, anche gli imperturbabili guardiani di Gaza. E cosa sia Gaza, questo cumulo di macerie e odio e rancore con vista sul Mediterraneo, ce lo racconta in poche parole lo scrittore Ahmed Masoud: «Abbiamo oltre 16 punti di confine con Israele che sono per lo più chiusi, non ci è permesso avere un porto marittimo o un aeroporto. Oltre due milioni di persone vivono sotto controllo israeliano: decidono loro quanta acqua, elettricità, cibo e medicine dobbiamo ottenere».

Ci stupiamo allora se gli abitanti di questa prigione a cielo aperto si affidano ai loro aguzzini interni per combattere una guerra senza speranza contro gli aguzzini esterni? E dobbiamo rivolgerci agli scrittori per conoscere la realtà che giornali e televisioni e politici non raccontano? Nello splendido romanzo L’amante, Abraham Yehoshua racconta attraverso i suoi personaggi lo stato di vergognosa minorità in cui sono tenuti i cittadini arabo-israeliani, che pure rappresentano il 21 per cento della popolazione di Israele. «L’occupazione dei territori – scrisse in un’altra occasione – ha contaminato le nostre norme come una falda acquifera avvelenata». 

A Dheisheh – nel marzo del 2000 – eravamo arrivati sulle orme di Karol Woytjla. «Visita storica», si disse allora, mentre le telecamere inquadravano il dolore del Papa polacco inginocchiato davanti al Muro del pianto. La missione vaticana si concluse con la solita lezioncina sui due Stati per due popoli, il volto severo del Pontefice e i dirigenti israeliani e palestinesi silenti e contriti davanti all’ospite illustre.  Poi – chiusa la parentesi delle buone maniere – tutto ricominciò come prima e peggio di prima.

Contemplo quelle immagini nella memoria e mi accorgo che delle cronache del tempo restano solo manciate di parole vuote. Ma a Gerusalemme – in una pausa del protocollo – andammo allora a trovare un “giusto” sopravvissuto all’olocausto e convocato per la grande occasione dalla lontana Polonia. Il vecchio ebreo ci accolse nella sua camera d’albergo: gentile, timido, parlava un inglese di scuola preciso e inesorabile. A una mia confusa domanda, ecco la sua risposta: «Caro signore, qui e dappertutto non ci sono bambini palestinesi e bambini ebrei. Sono bambini, questi, niente altro che bambini». Oggi quel vecchio signore sarà ormai morto, ma certo si rivolge a lui la ragazzina di Gaza, quando chiede: «Ho solo dieci anni, cosa devo fare?».

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