Lidia Lombardi
“La leggenda di Elena Ferrante”

Dentro l’anima dell’Amica geniale

Una ricognizione della misteriosa scrittrice e della sua celebre quadrilogia tracciata da Annamaria Guadagni in un libro emozionante e documentato che entra nel cuore di Napoli e della letteratura che l’avvolge. Diventando indagine, reportage, cronaca di costume, ricostruzione storica, riflessione antropologica

Dieci anni fa, nell’ottobre 2011, usciva L’amica geniale, primo volume di una tetralogia diventata un successo globale, reiterato anche dalla serie televisiva di Saverio Costanzo. Un miracolo letterario, intercettato dalla casa editrice e/o – fieramente indipendente – che si deve alla penna di Elena Ferrante, un nome, ma finora non una faccia. Perché l’autrice della saga amicale e familiare di Lila e Lenù, fatte nascere nel 1944, un’infanzia nel rione popolare napoletano a ridosso della ferrovia fermata Gianturco, è rimasta sempre un mistero. Mai comparsa in pubblico, mai svelata nella propria personale esistenza. Un fantasma che ha rimpinzato le pagine culturali, con critici e cronisti impelagati a scoprirne l’identità. Al punto che lo stesso bozzolo nel quale Elena Ferrante si cela è parte integrante di un mito, di un’aura sacrale che accresce l’interesse nei confronti delle vicende narrate nei quattro romanzi distesi dagli anni Cinquanta agli Ottanta.

Insomma, i quattro titoli sono molto più di un caso letterario. Mentre chi li ha scritti travalica l’immanenza autoriale, il suo produrre e vendere, pur con ispirazione. Perché Elena Ferrante è diventata una “figura letteraria” a sua volta, distesa a guardare la vita di Lenù (diminutivo di Elena, si badi bene) e di Lila allo stesso modo che il pastore Benino sta, sdraiato, ai margini della vita che si anima nel presepe. Così le si accosta Annamaria Guadagni – scrittrice, giornalista e per anni responsabile dell’ufficio stampa di Rizzoli – in un libro affascinante, La leggenda di Elena Ferrante (Garzanti, 305 pagine, 17 euro). È un’indagine attorno al punto interrogativo, alla chimera che può essere una lei e un lui, secondo le congetture giornalistiche. Che trascende lo pseudonimo per diventare una storia nelle storie. Non solo dell’Amica geniale, ma della seconda metà del Novecento e del ruolo che in essa hanno avuto le donne. Perché se le avventure di Lenù e Lila sono educazione sentimentale e riscatto – Lenù riesce a laurearsi, ad andarsene dal rione, a diventare una scrittrice – anche quella di Elena Ferrante, per quanto si può ricavare dal compendio delle sue interviste concesse precisando di «orchestrare menzogne che dicono però sempre, rigorosamente la verità», è un’ascesa conquistata andandosene lontano dall’orizzonte che ha guardato da bambina, forse addirittura al di là dal mare, nella Grecia nutrita dai miti che ella conosce e insegna.

Abbiamo evocato Benino. L’accostamento alla scrittrice lo fa Annamaria Guadagni, rivelando che ogni anno si reca a San Gregorio Armeno per acquistare una nuova statuetta da sistemare nella casalinga Natività e di essersi presa il pastore dormiente proprio nel clou della realizzazione del libro sulla Ferrante. Dice anche della genesi del suo lavoro. Assegnandole una data precisa, il 2 ottobre 2016. Una domenica. Nella quale l’inserto culturale de Il sole 24 ore, in un articolo firmato da Claudio Gatti, rivela di aver individuato in Anita Raja – scrittrice e traduttrice – la destinataria di una serie di elevati compensi da parte dell’editore e/o nell’anno del boom internazionale de L’amica geniale. Uno scoop che ha un seguito ancora non estinto sulle pagine dei giornali, tanto più che Raja, nata a Napoli, è la moglie di Domenico Starnone, scrittore Premio Strega, anch’esso più volte indicato come la vera (il vero) Elena Ferrante.

Guadagni prende il primo treno per Napoli e avvia la sua inchiesta «per ricucire l’abito strappato» della famosa romanziera. Che la porterà, in mesi e anni, sui ciottoli e sulla polvere calcata da Lenù e Lila, sulla sabbia della spiaggia al di là del tunnel scuro della ferrovia che confina nel limbo il rione Ascarelli nel quale si vive e sopravvive tra i detriti lasciati dalla guerra. E sulla rena di Ischia, la meta che la figlia del ciabattino ora sposata al ricco salumiere e quella di un piccolo impiegato che però le fa proseguire gli studi possono raggiungere quando girano più soldi nell’Italia del boom e l’isola è diventata un set. Cerca foto negli archivi, la Guadagni (riprodotte nel libro anche quelle con scorci attuali del rione, nei quali campeggiano murali con le sagome delle protagoniste adolescenti). Cerca chi può raccontare degli anni Cinquanta tra le case oltre la ferrovia, di quel professor Agostino Collina che fonda la Biblioteca popolare e che nel primo romanzo diventa il maestro Ferraro. Dedica un capitolo a Piccole donne, che Lila e Lenù prendono in prestito proprio nella biblioteca e che è a sua volta racconto di indissolubili solidali legami tra donne, le sorelle March, tese alla indipendenza come conquista femminile. Rintraccia a Licola una certa Nunzia Gatti, infanzia ad Ascarelli negli anni Quaranta, un po’ Lila un po’ Lenù e chissà? magari Elena Ferrante. Sale sulle torri del Centro Direzionale e osserva dall’alto il “buco” del rione, che ebbe origine negli anni Trenta con il nome di Luzzatti, inaugurato dal Duce, gente povera ma dignitosa che faceva l’orto nei giardinetti e andava a messa nella parrocchia della Sacra Famiglia, tenuta dai padri Giuseppini e fiera degli arredi giunti da San Giuseppe Maggiore alla Medina e dei candelabri donati dal principe Umberto di Savoia. Un’umanità man mano cacciata dai grassatori degli alloggi popolari, frammischiata a camorristi di piccolo cabotaggio, poi, negli anni Ottanta, ai trafficanti di eroina.

Ma compie anche un rigoroso e impegnativo lavoro di esegesi sulle opere della Ferrante, la Guadagni. Analizzando i romanzi di un suo ipotetico e seccato alter ego, lo Starnone che marca nella propria ironia il punto di distacco dalla supposta autrice alter ego, imbrigliata volontariamente in un gioco di doppi. Rileggendo La frantumaglia, raccolta di interviste che rivela tre Elena Ferrante, l’esordiente nel 1992 con un «romanzo folgorante» che vuol restare sconosciuta; quella di dieci anni dopo che risponde ai giornalisti e comincia «a imbastire una sua storia di autrice e di donna»; infine la scrittrice «consapevole e matura» che progetta la saga dell’Amica geniale. Ancora, chiedendosi se sia giusto «sfondare con qualsiasi mezzo» il muro dietro il quale si cela uno pseudonimo, e attribuendo a esso non il ruolo di «espediente editoriale» ma «la scelta di una vita parallela, in totale libertà» che si traduce anche in diritto all’immaginazione senza limiti da parte del lettore. Il quale non vuol sapere chi sia Elena Ferrante. E non lo vuole sapere neanche Guadagni, pur convinta che si tratti di una donna, di Napoli, una che «non entra ma esce dal romanzo». Soprattutto, ci fa capire che la leggenda di Elena Ferrante nutre il proprio amore per la lettura. Il libro così diventa molte cose: indagine, reportage, cronaca di costume, ricostruzione storica dell’Italia del boom e del decadimento morale, riflessione antropologica, periscopio nel mondo dell’editoria e della letteratura. Con la coloritura delle emozioni trovate sui propri passi e una capacità di scrittura nutrita dalla cristallina descrizione dei particolari ai quali sa dare un’anima. Come quando descrive la brossura porosa del libro d’esordio di Ferrante, che tira fuori dallo scaffale di casa: simile «alla carta assorbente di quando – bambini – asciugavamo l’inchiostro che colava dalla penna». Lenù, Ferrante, Louise Alcott, Fabrizia Ramondino, Anna Maria Ortese, Elena Croce, Anita Raja incontrate da Guadagni nel “petit tour”, quella penna hanno usato, annegando un po’ (o tanto) di se stesse nell’inchiostro che abbevera i lettori.

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