Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Tra dandy e tiranni

L'amore filiale raccontato (con molta autenticità) da Eric Emmanuel Schmitt, il nomadismo culturale di fine Ottocento descritto da Julian Barnes e la dittatura delle banane in Guatemala spiegata da Mario Vargas Llosa

Il lutto. Il titolo di questo libro diaristico (Diario di un amore perduto) farebbe pensare d’acchito a un’amante. Lo scriviamo al femminile visto che l’autore è maschio, e si chiama Eric Emmanuel Schmitt (edizioni e/o, 192 pg., 16,50 euro). Si scopre invece che i tormentosi, ma anche dolci ricordi rimandano a sua madre. Il narratore tedesco vuole «braccare i fatti», ossia descrivere gli anni trascorsi con la madre e i due successivi alla sua scomparsa. Ne viene fuori un diario d’un uomo inconsolabile, una prosa a tratti frammentaria e con divagazioni filosofiche che comprendono anche aforismi. Non solo: c’è, ed è palese, l’ironia, strumento (consapevole o no?) grazie al quale Schmitt evita con garbo l’autocommiserazione.

I fatti sono narrati seguendo la legge dell’immediatezza e dell’autenticità. Sì, perché l’autore intinge la penna nell’inchiostro della spietatezza: si mette a nudo e svela le proprie paure, ma non quella di inquinare il suo passato di scrittore di successo. Il fil rouge è la lucidità con cui si tuffa senza esitare nell’introspezione. Nel mondo analizzato con il coraggio dell’entomologo, Schmitt estrae dal suo magma doloroso episodi e periodi di felicità. Dopo aver goduto della presenza di una madre cultrice di arte e di letteratura, lo scrittore grida la propria verità: «Io non sono solo carne della sua carne, sono mente della sua mente». E il padre? Con lui ha avuto rapporti conflittuali. Ciò malgrado avverte fortemente la necessità di riconquistare il gusto per la vita. Immaginare un rapporto edipico, latente o no, spetta solo al lettore.

Spettatore. Per uno scrittore come Julian Barnes, l’inglese che si rese noto soprattutto con Il pappagallo di Flaubert, descrivere la storia dei grandi è impresa quasi banale, comunque scontata. In questo suo nuovo romanzo (L’uomo con la vestaglia rossa, Einaudi, 287 pg., 22 euro) Barnes, da sempre affascinato dalla cultura d’oltremanica, sceglie un personaggio oggi davvero poco noto eppur valente medico (e attivo dongiovanni), ossia il ginecologo francese Samuel-Jean Pozzi. Il protagonista fu ai suoi tempi un uno stimatissimo professionista. L’autore prende in considerazione lettere, diari, saggi, diventando (qui sta gran parte dell’originalità del testo letterario) una sorta di barman che miscela nelle pagine la documentazione e l’elaborazione di grande romanziere. Di lui ci viene tramandato il ritratto che ne fece il pittore John Singer Sargent. Il barbuto Pozzi appare come uomo elegante e affascinante, con mani così affusolate da immaginarlo al pianoforte. Pozzi è un gran viaggiatore e s’infila nel narcisismo dell’intellettualità, frequentando scrittori, dive del palcoscenico, edonisti sfrenati e raffinati, dandy di tremula fama, ma anche geni come Gustave Flaubert (si rimandi al precedente titolo) e Charles Darwin. Il viaggio s’inizia a Londra. Lo accompagnano due nobili apertamente omosessuali (la cui tendenza, diciamo, non intacca la natura etica del medico). Pozzi, al contrario, ha un dossier di vita vissuta molto ricco. Tra le varie amanti annovera Sarah Bernhard, che gli starà accanto, tra una parentesi e l’altra, per cinquant’anni. Lei lo chiamava “Doctor Dieu“. Tra le conoscenze c’è anche Henry James. Tutt’attorno un’epoca molto simile alla Belle Epoque, che Barnes definisce politicamente instabile e “culturalmente isterica”. Il lettore non s’annoia mai.

Le banane. Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, 85 anni, ha sempre puntato sul racconto di uno o di un gruppo di personaggi, al quali ha affidato il compito di descrivere, ciascuno con la sua storia o la sua avventura, la sua patria: il tribolatissimo (oggi più che mai con il Covit) paese natale, il Perù. Nel suo nuovo romanzo (Tempi duri, Einaudi, 328 pg., 20 euro) tutto si ribalta, e il grande narratore si adopera perché il pubblico conosca il sapore vero, ossia politico, delle banane. Stavolta il narratore, senza l’ausilio di personaggi ben delineati e ambientazioni folkloriche, affronta un pezzo scottante della storia recente del Guatemala, attribuendo decenni di instabilità, e di miseria, all’azione della United Fruit, antenata della attuale Chiquita (banane), multinazionale americana. Il magnate della United Fruit, Sam Zemurray, si vide sorpreso dalla svolta democratica del paese. Dopo un confusissimo periodo, verrà lanciata una campagna stampa seguita, nel ’54, dall’ “interessamento” della Cia. Il che favorirà un golpe: il presidente, eletto con i crismi della democrazia, sarà “spinto” alle dimissioni, malgrado le accuse di essere il braccio politico dell’Urss non saranno mai state provate davvero. E, dopo di lui, il Paese rotola in una serie di dittature e colpi di stato il cui unico, vero obiettivo è solo quello di salvaguardare gli interessi commerciali dei colossi Usa. Il cuore letterario di Vargas Llosa, sensibilissimo da sempre al tema dell’autodeterminazione politica come baricentro essenziale di esistenze civilmente corrette, oggi s’indigna ancora, non ignorando la pericolosissima instabilità dell’intero Centro-America. Tutto questo si riversò non solo nel dar voce, o più spesso grida, in singoli o gruppi di personaggi, ma anche nella sua vita privata: nel 1990 il futuro premio Nobel (nel 2010) corse alla presidenza del Perù, ma fu sconfitto da Alberto Fujimori. Nell’ultimo romanzo, Mario Vargas Llosa, oggi naturalizzato spagnolo, non affida il compito di riassumere il caos sociale a personaggi vivacissimi e ben delineati, ma – nelle ultime pagine del libro – si pone in scena in prima persona: la tastiera degli scacchi la vuole muovere lui, soprattutto lui. Come ha bene osservato un critico «Tempi duri fa venire meno voglia di essere superficiali, anzi ti fa sentire in colpa per il semplice fatto di sapere quale sapore hanno le banane».

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