Luca Fortis
Intervista con Eleonora Mongelli

Schiavitù uigura

Il regime cinese calpesta la minoranza musulmana uigura: ogni sorta di diritti negati, campi di lavoro trasformati in campi di detenzione. Ma le multinazionali della moda o della tecnologia (spesso) restano in silenzio per non perdere vantaggi commerciali...

L’Unione Europea, in coordinamento con gli Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada, ha deciso di sanzionare i dirigenti cinesi implicati nelle violazioni di diritti umani degli uiguri. Sono le prime misure europee contro la Cina dopo l’embargo sulle armi imposto nel 1989 in seguito alla strage di Tienanmen. Ne parliamo con Eleonora Mongelli, Vice Presidente e Segretario Generale della Federazione Italiana Diritti Umani – Comitato Italiano Helsinki, autrice del podcast Made in Slevery, in cui denuncia sulla tragica condizione degli uiguri.

Come nasce il progetto di “Made in Slavery”?

È da molti anni che seguo con preoccupazione la repressione delle minoranze cinesi da parte del governo centrale. Negli ultimi tempi, c’è stato però un aggravarsi della situazione che riguarda soprattutto gli uiguri, la minoranza turcofona musulmana che abita la regione autonoma dello Xinjiang. Non solo la repressione nei loro confronti da parte della Cina è diventata più violenta, ma si assiste a una nuova fase che coinvolge, questa volta, anche l’industria globale. Si stimano almeno mezzo milione di uiguri sottoposti a pratiche di lavoro forzato e costretti a lavorare tra fabbriche e campi di cotone in Cina per fornire industrie in tutto il mondo. In Made in Slavery ho voluto raccontare proprio questo aspetto, portando all’attenzione dell’ascoltatore testimonianze dirette, voci di esperti e dati attendibili. La speranza è che si prenda consapevolezza dei rischi che comporta stringere accordi commerciali con un Paese che non solo non rispetta i diritti umani, ma che neanche accetta di discuterne e che anche in Italia si apra un dibattito sulla necessità di regolamentare la responsabilità delle nostre aziende che operano all’estero in materia di diritti umani.

Quando inizia la persecuzione degli uiguri in Cina?

Bisogna fare una premessa. Lo Xinjiang è una regione nella quale vivono quasi 22 milioni di persone, tra cui si stimano circa 15 milioni di uiguri. Questa regione è di fondamentale importanza per Pechino, sia per la sua ricchezza di risorse energetiche, sia per la sua posizione geografica per la quale viene considerata la porta della Cina per l’Occidente. Negli Anni Novanta si sono verificati alcuni episodi di violenza da parte di una piccola parte di uiguri separatisti e attacchi terroristici soprattutto nel nord della regione.

Da lì il governo cinese lancia le prime violente campagne di repressione che colpiscono tutta la popolazione uigura nello Xinjiang e che si caratterizzano con arresti arbitrari, processi farsa ed esecuzioni extragiudiziali. Questa repressione, portata avanti nel nome della lotta al terrorismo, cresce sempre di più negli anni e diventa quella che oggi conosciamo come assimilazione forzata delle minoranze alla cultura cinese.

Perché nell’ultimo decennio la repressione è diventata più sistematica?

Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 il governo cinese ha iniziato a costruire dei campi di detenzione per le minoranze etniche, tra cui si contano in gran parte uiguri e da quanto si legge nel report dell’ASPI (Australian Strategic Policy Institute),  “Xinjiang Data Project”, ad oggi sono stati identificati centinaia di campi, identificati grazie soprattutto a immagini satellitari dalle quali si possono vedere le torri di guardia, filo spinato e  capannoni industriali dove i detenuti lavorano. A parte il lavoro forzato, in questi campi si verificano atti di tortura, sparizioni, espianto di organi, sterilizzazione e aborti forzati a cui sono sottoposte le donne uigure.

Come funziona il lavoro forzato?

Esiste un programma di trasferimento coatto di forza lavoro uigura che coinvolge non solo gli uiguri detenuti arbitrariamente nei campi. Infatti, sono emerse prove secondo le quali il governo centrale userebbe metodi coercitivi per trasferire uomini e donne uigure in campi di cotone e fabbriche distribuite su tutto il territorio cinese. Anche per questi ultimi però, le condizioni a cui sono sottoposti non sono diverse da quelle di una prigionia, poiché sono sotto sorveglianza completa e, a differenza dei lavoratori Han, l’etnia predominante in Cina, gli uiguri non possono mai lasciare le fabbriche. È il caso, per esempio, di una fabbrica cinese che si chiama Qingdao Taekwang Shoes Co. sul cui libro aziendale si legge che è fornitore della Nike.  Questa fabbrica, che si trova nella Cina Nord orientale, è fornita di torri di guardia, staccionate, filo spinato e stazioni di polizia al suo interno.

Le grandi aziende sanno? Sono complici?

Tutte le aziende su cui sono emerse prove del loro coinvolgimento nelle pratiche di lavoro forzato, sono state informate. Solo pochissime però si sono mostrate interessate alla questione. È il caso, ad esempio, di H&M che ha dichiarato ufficialmente il suo sostegno in favore dei diritti degli uiguri e per questo è stata vittima di un’aggressiva campagna di boicottaggio da parte della Cina o come OVS che proprio qualche giorno fa ha preso la decisione di non approvvigionarsi più dallo Xinjiang. Al contrario, gli altri brand fanno finta di nulla, per timore di perdere i loro vantaggi commerciali in Cina. I casi più preoccupanti sono quelli dell’azienda di lusso tedesca Hugo Boss, che pochi giorni fa ha riferito alla clientela cinese che continuerà ad approvvigionarsi dallo Xinjiang e dalla Inditex, società madre di Zara, la quale ha rimosso la sua policy contro il lavoro forzato dal proprio sito web.

Ci sono liste delle aziende coinvolte?

Il rapporto dell’Aspi “Uyghurs for Sale” contiene le evidenze del coinvolgimento di almeno 82 noti marchi internazionali, leader nel settore della tecnologia e dell’abbigliamento. Al di là di questi, però, ce ne sono molti altri che sono per lo più legati alle pratiche di lavoro forzato nei campi di cotone dello Xinjiang, da cui proviene l’80% del cotone cinese. Questo è ampiamente documentato nel recente studio del ricercatore Adrian Zenz, secondo il quale almeno 570.000 uiguri sono stati ridotti in schiavitù per produrre quello che rappresenta il 20% del cotone mondiale; per produrre, quindi, gran parte dei nostri indumenti.

Il governo cinese cosa risponde a chi gli pone la questione uigura?

Inizialmente negava l’esistenza dei campi. Poi, in seguito alla diffusione delle immagini satellitari ha dovuto ammettere la loro esistenza, affermando che però si tratta di campi di rieducazione in cui vengono “riabilitati” potenziali terroristi. Quindi, continua a liquidare le accuse dei gravi abusi come fake news. Inoltre, di fronte alla recente presa di posizione di molti paesi occidentali e alle sanzioni coordinate di Ue, Stati Uniti, Canada e Regno Unito, ha risposto annunciando contro-sanzioni verso istituzioni, individui e campagne di boicottaggio nei confronti delle aziende.

Perché la minoranza musulmana in Cina non è difesa dalle opinioni pubbliche dei paesi islamici?

Perché non vogliono mettere a rischio le proprie relazioni economiche con la Cina. Per esempio, la “Belt and Road Initiative” (Via della seta) coinvolge molti stati dell’Asia Centrale e del Medio Oriente i quali beneficiano dei vantaggiosi contributi da parte della Cina. Esporsi su quanto accade nello Xinjiang sarebbe decisamente troppo rischioso.

Podcast: https://www.spreaker.com/show/made-in-slavery_1

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