Agnese Falcarin
Dopo il premio Oscar

La vita che sfuma

Il film che ha dato il secondo Oscar a Anthony Hopkins è tratto da un bellissimo testo teatrale di Florian Zeller (portato in Italia da Piero Maccarinelli): un apologo sulla malattia della memoria. E sulla difficoltà, per tutti, di convivere con la vecchiaia

Un grande appartamento a Londra, una casa borghese con una certa classe e un certo rigore, con i cuscini e le tende abbinate e i quadri alle pareti. È in questo ambiente che ritroviamo Anthony (Anthony Hopkins) seduto tranquillamente nella sua poltrona. È solo, è vecchio ma non ha bisogno di nessuno. Nemmeno di Anne (Olivia Colman) la figlia premurosa e preoccupata che sta cercando in tutti i modi di prendersi cura di lui. Ecco gli ingredienti di base di The Father il film con cui Florian Zeller debutta nel mondo del cinema e che è valso ad Anthony Hopkins, protagonista indiscusso della pellicola, il secondo Oscar al miglior attore della sua lunga carriera.

Come ci avverte il sottotitolo, però, nulla è come sembra: dietro all’apparentemente ordinato e minimalista ambiente si nasconde, in realtà, il caos emotivo dei personaggi che poco per volta vengono risucchiati in un vortice che trasforma la casa nel loro inferno personale. Il protagonista si rivela essere un personaggio fantastico che non è affatto deciso a rinunciare alla sua indipendenza. Mostra, però, i primi segni di una malattia che potrebbe far pensare alla demenza. Il morbo di Alzheimer non viene mai nominato esplicitamente ma, certamente, avvertiamo la sua presenza ingombrante.

Quando perde il suo orologio incolpa la badante che la figlia ha assunto per prendersi cura di lui. È proprio attraverso questa discussione che iniziamo a conoscere i nostri due personaggi e la loro relazione. La ricerca di questo orologio – che allegoricamente potrebbe richiamare la ricerca del tempo perduto nella memoria del protagonista – fa da leitmotiv al film. Lo ha smarrito, lo ha dimenticato in bagno, lo ha riposto nel solito nascondiglio o forse è stato rubato. Fatto sta che non ricorda.

Questo lo rende irascibile e per Anne diventa impossibile trovare qualcuno che si occupi di lui. Decide allora di ospitarlo nel suo appartamento, idea che viene accolta con ostilità dal suo compagno Paul (Rufus Sewell) che tratta il suocero in maniera alquanto crudele. Anne è esausta, sta rinunciando alla sua vita per prendersi cura di lui che a volte nemmeno la riconosce e che, sicuramente, non la ringrazia: sogna di soffocarlo nel sonno, di liberarsi del problema, ma lo ama troppo. Zeller sfida il pubblico senza psicoanalizzare i personaggi ma semplicemente mettendo in mostra l’ambiguità dei legami familiari in cui si nascondono dinamiche di affetto e dinamiche profondamente distruttive.

Anthony inizia a non riconoscere più le persone che lo circondano. Con Laura (Imogen Poots), la nuova badante, torna in scena anche un fantasma sepolto nella memoria quello di Elisa, l’altra sua figlia che non vede da tempo. Le facce si confondono: Paul diventa l’ex marito della figlia e anche Anne non ha sempre lo stesso viso. Geniale l’utilizzo di attori diversi per interpretare lo stesso ruolo e per destabilizzare completamente Anthony e il pubblico che impiega un paio di scene a comprendere questo meccanismo. Qualcosa non torna, un complotto si svolge ai suoi danni e questa situazione lo mette in uno stato di continua agitazione. La malattia prende lentamente il sopravvento sull’esistenza di un uomo che lentamente sbiadisce con la sua memoria e la sua coscienza di sé.

Questo grande film può vantare un altro Oscar: quello alla miglior sceneggiatura non originale conferito a Christopher Hampton e a Zeller stesso che hanno curato l’adattamento cinematografico a partire dal testo teatrale Le Père scritto dal regista nel 2012 e che ha fatto il giro del mondo negli ultimi 8 anni (approdando anche in Italia nel 2017 con la regìa di Piero Maccarinelli e Alessandro Haber protagonista) .

I temi centrali della pièce teatrale vengono messi in risalto da un adattamento che accompagna ancora di più lo spettatore nel mondo di Anthony. Zeller costringe il pubblico nella posizione del protagonista. Assistiamo all’evolversi della situazione attraverso il filtro della sua psiche stravolta. Ci rende partecipi del suo smarrimento e del suo distacco dalla realtà. La sua vita diventa piena di contraddizioni che vengono create dalla sua mente arrugginita. Il tempo all’interno del film perde la sua linearità, le scene si ripetono con minime variazioni. Gli oggetti quotidiani scompaiono dalla scena. Lui si sente sempre a casa sua ma non la riconosce mai. I dettagli svaniscono, i silenzi si allungano e comunicare diventa sempre più faticoso.

Qui il dramma non è solo quello del malato ma anche quello della famiglia che lo vede lentamente sparire (o che lo allontana per non affrontare il problema), presa dalla responsabilità e dall’impossibilità di risolvere la situazione. Permea questo testo l’amarezza dovuta all’inversione dei ruoli fra genitori, che ritornano bambini, e figli che non sono in grado di assisterli pienamente. Alla fine, Anthony domanda all’infermiera con una delicatezza straziante: “Chi sono io esattamente?” La malattia ha cancellato la sua memoria e la sua capacità di apprendere. Ha cancellato la sua identità e, con questa, la vita stessa. Non ha più appigli nella realtà, è come se non avesse mai vissuto.

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