Flavio Fusi
Cronache infedeli

La bugia di Erdogan

La (inedita) condanna del genocidio armeno da parte di Joe Biden (con la reazione scomposta del leader turco) riporta in primo piano una ferita della storia mai sanata. Una superpotenza non può avere ombre, pensa Erdogan, ma la memoria è un diritto delle vittime. Ma anche dei colpevoli

Quelle fosse aperte, quei cadaveri accatastati, quelle ossa sfasciate in spezzoni, frammenti, schegge, dove li ho già visti? Marc indica i teschi allineati sul lungo traliccio di legno. Una profonda depressione: «Vedi? qui hanno colpito con un martello».  Un taglio netto: «E questo lo hanno fatto con un machete». Un buco sfrangiato e qualcosa che suona dentro, come un sonaglio di ossa: «Qui è entrata una freccia, vedi…». Venticinque anni fa: Ruanda, borgo di Ntàrama, un odore dolciastro galleggia nell’aria tra i colori squillanti dell’Africa, la terra rossa, i ciuffi verdi dei banani, le macchie smeraldo dei campi di thè. Sulla strada secca passa una bicicletta, la ruota cigola, l’uomo saluta con un gesto.

Del genocidio africano dei nostri anni Novanta restano queste immagini, moltiplicate per mille: gli Hutu che vollero cancellare dalla faccia della terra i loro fratelli Tutsi, e che nella fosca primavera del ’94 riuscirono a massacrare quasi un milione di persone.

Guardo ora una vecchia foto ingiallita dei primi del Novecento: soldati con i pantaloni a sbuffo e baionette innestate sui lunghi fucili in posa davanti all’obbiettivo: sono orgogliosi e ridenti come contadini alla vendemmia, ma il campo che calpestano è disseminato di teschi e cadaveri smembrati. Siamo in qualche luogo sconosciuto del sud della Turchia sul confine desertico con la Siria e l’Iraq, dove il governo ottomano, capeggiato dai “giovani turchi”, scatenò una caccia all’armeno – colpevole di essere armeno – che si concluse vittoriosa con oltre un milione e mezzo di morti. Morti davanti ai plotoni di esecuzione, in fuga o incatenati, morti di baionetta o di mazza, di fuoco, di stupro, di botte, di fame.

Come chiameremo oggi questa mattanza che in Medio Oriente fu il preludio di sangue al massacro globale della Grande guerra del ’15-‘18? Nei giorni scorsi, il nuovo presidente americano Joe Biden ha messo sul piatto la parola proibita che i suoi predecessori non riuscirono mai a pronunciare. «Genocidio»: e su questa parola si è scatenato il fuoco di un incidente diplomatico che ancora brucia tra Washington e Ankara, e che fa vacillare il già precario equilibrio interno all’ Alleanza atlantica tra l’autocrazia turca e le democrazie occidentali.

Mettiamo a confronto le parole dei contendenti, e ci rendiamo conto dell’irriducibilità del conflitto. Dice Biden: «Ricordiamo la vita di coloro che morirono nel genocidio armeno e ci impegniamo affinché tragedie come questa non si ripetano nel futuro». Risponde Erdogan: «La Turchia difenderà la verità contro tutte le menzogne diffuse intorno al cosiddetto genocidio armeno. Sul nostro proprio passato non abbiamo nulla da imparare da nessuno».

Quello che appare in superficie è uno scontro diplomatico su vicende trascorse, un irriducibile ma vacuo conflitto di interpretazioni storiche. In realtà, il negazionismo di Ankara è un architrave fondamentale della strategia di Erdogan, che possiamo chiamare «costruzione di una grande potenza»: l’auto-affermazione storica di un vasto Paese di ottanta milioni di abitanti, posto al vertice di uno scacchiere geopolitico fondamentale, impegnato militarmente in Siria, Libia, Irak e Azerbaijan, incardinato al centro delle rotte energetiche del Mediterraneo, crocevia dei corridoi migratori dal sud al nord del pianeta. Per affermare questa identità di grande potenza è importante   il presente, ma è fondamentale il passato. È necessaria la costruzione di una memoria, e la memoria così costruita non può tollerare il sospetto infamante di genocidio.

Si applica qui una regola brutale dei rapporti di forza nell’epoca presente. Popoli deboli e periferici come il Ruanda possono portare il marchio del genocidio e piegarsi alla giusta condanna del passato. Possono sopportare questo marchio nazioni spinte ai margini della storia moderna, come la Cambogia, dove tra il 1975 e il 1979 il delirio omicida dei Khmer rossi condusse al massacro tre milioni di inermi cittadini. Possono infine riconoscere la colpa territori segnati dallo stigma della “pulizia etnica”, come i superstiti delle recenti guerre balcaniche.  

La Germania è la sola grande potenza che sia riuscita dolorosamente a ricostruirsi come Stato nel consesso degli Stati, sopportando e scontando il peso di una guerra perduta e di una condanna per genocidio. E quelle immagini degli antichi militari turchi in posa tra le ossa delle vittime armene sono le stesse degli ufficiali della Wermacht che fumano e scherzano davanti alla fossa spalancata di Babij Jar, nei sobborghi di Kiev, dove si ammassano i cadaveri nudi di migliaia di esseri umani. Riconoscere la colpa è un lungo cammino nel dolore e nella vergogna, che oggi la Turchia moderna non è disposta a intraprendere. E tuttavia, le parole finalmente chiare che vengono da Washington sono un passo in avanti sulla strada di una dignità condivisa. Lo scrisse splendidamente un grande artista armeno, Charles Aznavour, nato Aznavourian, esortando i fratelli turchi a camminare insieme nel fango e nel sangue: «È giunto finalmente il momento di riconciliare i nostri popoli, di strappare i falsi libri di storia, di lavar via per sempre questa macchia spaventosamente scarlatta, di liberarci della menzogna di stato. Le giovani generazioni venute dopo quel dramma, che non sono per nulla responsabili del passato ma sono garanti dell’avvenire, hanno il diritto di sapere e di sciogliersi da una colpa che non è la loro». La memoria è libertà, ed è un diritto delle vittime, ma anche dei colpevoli.

Facebooktwitterlinkedin