Raoul Precht
Periscopio (globale)

Baudelaire dimenticato?

Poeta degli eccessi (anche linguistici) e dei contrasti (soprattutto sociali), a duecento anni dalla nascita Charles Baudelaire appare come un mito esorcizzato dal tempo e dalle mode. Più odiato e amato che letto e studiato, in verità

Tra le tante cose singolari e poco gradevoli che possono capitare nella vita c’è anche il fatto di ritrovarsi tumulato in compagnia di qualcuno che si è detestato per tutta la vita. È quanto accadde a Charles Baudelaire: alla sua morte, il 31 agosto 1867, finì infatti con l’essere inumato nella tomba di famiglia, al cimitero di Montparnasse, a fianco dell’odiato patrigno, il generale Jacques Aupick. La madre Caroline, da lui invece venerata in una relazione madre-figlio estremamente complessa e certamente poco sana, ve lo avrebbe raggiunto solo diversi anni dopo, lasciandogli tutto il tempo – possiamo immaginare – d’ingaggiare anche sotto terra un duello all’ultimo sangue con il patrigno rigido e perbenista.

Parliamo qui di Baudelaire intanto per ricordarne il bicentenario della nascita, avvenuta a Parigi il 9 aprile 1821, ma anche perché dell’ideatore del termine stesso di “modernismo” si discorre sempre meno sovente, come se si trattasse di un poeta dimenticato, superato e comunque da rimuovere accuratamente. O ancora, per usare una metafora che qui ricorrerà più volte, per esorcizzarlo. In realtà la sua parabola, che con il senno di poi, a duecento anni di distanza, ci sembra per certi versi tipica e prevedibile, all’epoca era tutt’altro, tanto che per tutta la vita Baudelaire faticò a trovare posto in una società e in un ambiente letterario da cui tutto lo separava.

Proviamo a elencare gli elementi salienti della sua poesia: Baudelaire canta una (relativa) dissolutezza, la sensualità, l’esotismo, il rifiuto delle convenzioni sociali (fra cui i matrimoni combinati) e della riproduzione come frutto principale dell’unione fra uomo e donna, la disponibilità e l’interesse a provare droghe per superare i propri limiti, l’ammirazione per la musica wagneriana, la magniloquenza e la grandeur, per il romanzo gotico e almeno per una parte della letteratura romantica nonché una certa attrazione per il suicidio, cui conducono l’angoscia e il tedio di vivere o, per dirla con un famoso termine baudelairiano, appunto, lo spleen. Lo fa con un’audacia verbale inedita, in cui l’iniziale omaggio a Blanqui e ai moti rivoluzionari del ’48 si trasforma presto in un sentimento di rivolta permanente. Emerge, in particolare dai Fiori del male, la contiguità fra la figura del poeta-flâneur-dandy, che con il suo abbigliamento, le pose e le movenze tanto si distingue dal borghese filisteo, con quella della prostituta, che proprio da quest’ultimo ricava, in quanto merce, la propria sopravvivenza. La poesia diventa per Baudelaire il riscatto di una vita che avverte priva di vocazione, segnata dalla transumanza da un alberghetto all’altro (Baudelaire sarà costantemente inseguito dai creditori), resa ancora più amara dal tentativo della società, attraverso i suoi tribunali, di normalizzare o appunto esorcizzare il ribelle. Tutto questo, che qui ho elencato in ordine sparso, oggi ci sembra forse banale e déjà vu, ma all’epoca non lo era affatto, ed è stato anzi proprio Baudelaire a mostrarci per primo certe stimmate poetiche con una nettezza e un’intensità rispetto alle quali le traiettorie umane di artisti successivi sembreranno pallide e ripetitive copie.

Baudelaire fotografato da Nadar

L’ideale di bellezza di Baudelaire era fortemente calato nel concetto di modernità. I suoi legami con il mondo dell’arte e degli artisti sono sempre stati intensissimi. Se il suo faro è fin dall’inizio Delacroix, che idolatrava, uno dei suoi libri di maggiore successo, anche di critica, sarà il trattatello Le peintre de la vie moderne (Il pittore della vita moderna), del 1863, dedicato invece a un pittore oggi un po’ dimenticato, Constantin Guys de Sainte-Hélène. La figura di Guys gli servirà, ma sempre con Delacroix sullo sfondo, da grimaldello per indicare, e talora creare dal nulla, valori artistici distinti da quelli del romanticismo e del realismo, di cui si sostanzierà in seguito la sua opera principale. Lo mostra con grande acutezza Walter Benjamin nei suoi tentativi saggistici, ricostituiti da G. Agamben e altri nell’ampio e accurato volume Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Neri Pozza, 2012). Benjamin si avvicina alle opere di Baudelaire prima in qualità di traduttore, poi come sociologo e filosofo, e vi ravviserà, occupandosene intensamente negli ultimi cinque anni della sua vita, il critico più spietato della modernità capitalistica e della solitudine dell’individuo, irrimediabilmente confuso nella massa amorfa che abita le metropoli.

Sappiamo bene come il titolo di Fiori del male non sia farina del sacco dello stesso Baudelaire, che accettò la cortese imposizione dell’editore, dettata probabilmente (già all’epoca) da ragioni commerciali. Lui avrebbe preferito di gran lunga i titoli che aveva escogitato egli stesso (Les lesbiennes o Les limbes), e in particolare, possiamo supporre, quest’ultimo, che ben indica la posizione del poeta, a metà fra paradiso e inferno, fra divino e demoniaco, in una posizione costante di attesa (nostalgica a priori) di qualcosa che non si è mai avuto, sentimento questo che ricompare come un fiume carsico nell’intero poema. Dimostrando sprezzo per le esagerazioni romantiche, Baudelaire muove verso una poesia che sia anzitutto, e forse paradossalmente, culto dell’ordine, della precisione e della cesellatura, anzitutto lessicale e stilistica, contro ogni enfasi sospetta. In questo è in linea con il tentativo già avviato in altre letterature – si pensi solo all’amatissimo Poe, che Baudelaire traduce in francese – di sottomettere le emozioni all’idea, così come la magia espressiva al travaglio metrico e in definitiva, se si vuole, alla matematica. Non mancano tuttavia, come rilevato nel 1989 da Jean Starobinski ne La malinconia allo specchio (ed. it. SE, 2006), allegorie complesse, che attribuiscono un senso spirituale a scene della vita comune e/o conferiscono a entità astratte un’identità materiale: sono tutti elementi che permettono al poeta di farsi carico della miseria umana trasfigurandola, tracciando la strada di una redenzione che sta proprio nell’operare poetico. Perché il poeta-flâneur-dandy dal destino incomparabile e unico scopre, man mano che avanza il poema, di non essere poi tanto dissimile dall’uomo comune, stritolato dalla vita metropolitana, in cui si può sopravvivere solo rifugiandosi di tanto in tanto in una voluttà sempre intrisa di tristezza – l’ossimoro è una delle figure retoriche prevalenti nel poema – o nelle droghe e nell’alcool (“Pour n’être pas les esclaves martyrisés du Temps, enivrez-vous; enivrez-vous sans cesse!” scriverà nello Spleen de Paris), paradisi del tutto illusori ed effimeri. Ma se della condizione umana la sofferenza è parte integrante, ciò che solamente può lenirla è allora la cognizione, asciutta ed esatta, del dolore. Già nell’aprile 1860, scrivendo alla madre ed evocando le lusinghe del suicidio – tentato più volte e fin dall’età di ventiquattro anni –, Baudelaire le confessa di sentirsi, disgraziatamente, “condannato a vivere”, cioè appunto condannato a conoscere il dolore in tutte le sue forme e varianti.

I Fiori del male, naturalmente, sono vissuti all’epoca come la massima espressione di oltraggio alla religione e alla morale, tanto che alcune poesie dovranno essere espunte e pubblicate solo in seguito nella raccolta Les épaves (I relitti). Non basta: Baudelaire e il suo editore saranno condannati entrambi a una pena pecuniaria, ridotta, nel caso del poeta, da trecento a cinquanta franchi solo grazie all’intervento dell’imperatrice Eugenia, opportunamente sollecitata da Baudelaire stesso. Resta però lo stigma, l’emblema di “poeta maledetto” che congelerà la carriera di un artista apprezzato, come spesso accade, più dai confratelli che dal pubblico. Ma cosa dire poi dei cosiddetti diari, ossia delle osservazioni sparse raccolte in Fusées (Razzi) e Mon cœur mis à nu (Il mio cuore messo a nudo) – qui il titolo è davvero un programma –, libretti nei quali, sotto forma di aforismi e massime frammentarie, Baudelaire esprime con la massima chiarezza le sue opinioni sul mondo? Qualche esempio: “Dio è il solo essere che, per regnare, non abbia neanche bisogno d’esistere.” – “La voluttà unica e suprema dell’amore sta nella certezza di fare il male.” – “Amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta.” – “Non potendo sopprimere l’amore, la Chiesa ha voluto almeno disinfettarlo, e ha decretato il matrimonio.” – “Di fastidioso, nell’amore, c’è che è un delitto in cui non si può fare a meno di un complice.” – “Chiavare, è aspirare a entrare in un altro, e l’artista non esce mai da se stesso.” Si potrebbe continuare per pagine intere, seguendo l’evoluzione di quest’atteggiamento iconoclasta, di questa tentazione insopprimibile d’épater le bourgeois, mostrando come, rispetto alle pagine più intime di Baudelaire, in fondo I fiori del male, anche per via della mediazione poetica, non siano poi la raccolta scioccante e perturbante che dovette parere ai giornali, Le Figaro in testa, e ai tribunali dell’epoca. Ma sarebbe un discorso ozioso. Condanna doveva esserci, e ci fu – e peraltro non sarà revocata prima del 1949!

Agli onori e ai disonori pubblici, comunque, Baudelaire non era così insensibile come si potrebbe credere. Sempre in una lettera alla madre, del 10 febbraio 1862, le riferisce di come, dopo dodici scrutini, non fosse stato ancora eletto all’Accademia e di come avesse dunque deciso di rinunciare alla candidatura. Ma ricordiamo anche come, cinque anni prima, dopo la condanna per immoralità rimediata per I fiori del male, avesse tentato perfino di ottenere, anche in quel caso senza successo, la Legion d’onore. Ne alberga, l’animo umano, di contraddizioni…

In fuga dai creditori, sempre più numerosi, il 24 aprile 1864, verso le 11 di sera, Baudelaire ripara nel detestato Belgio, un paese a cui dedicherà perfino un libello satirico rimasto incompiuto e intitolato Pauvre Belgique. Più precisamente, trova rifugio nella stanza n° 39 dell’Hôtel du Grand Miroir di Bruxelles: come preciserà lui stesso, una camera abbastanza grande per potervi camminare dentro e con un tavolo abbastanza grande per potervi scrivere. Da questa stanza – come ci racconta lo scrittore francese Gilles Ortlieb nella sua suggestiva ricostruzione di questo autoesilio, intitolata appunto Au Grand Miroir (Gallimard, 2005) – Baudelaire non si muoverà più per tutto il suo lungo soggiorno (almeno fino a quando non vi sarà costretto, come vedremo), il che per lui è cosa rara se si pensa che a Parigi, in sedici anni, ha cambiato quattordici indirizzi.

Ma anzitutto: perché Baudelaire dovette mettersi in salvo in Belgio? Fin da giovane, dopo aver scialacquato in modo preoccupante parte delle ingenti sostanze lasciategli dal padre, aveva indotto la madre Caroline a metterlo sotto tutela giudiziaria, pare per idea dell’odiato Aupick. In ogni caso, del patrimonio paterno che si era riusciti a salvare Baudelaire non poté godere, per il resto della sua vita, se non con il contagocce, con piccole somme che gli venivano elargite di volta in volta per far fronte alle spese indispensabili e che non erano sufficienti a finanziare un treno di vita signorile. Inoltre, la scandalosa unione, fra alti e bassi, con la mulatta Jeanne Duval, che si protrarrà per tutta la vita, anche quando la bellezza di lei sarà sfiorita e cancellata dalla malattia e dalla paralisi, non contribuisce certo a dare al poeta, agli occhi della borghesia (e della madre), una patente d’affidabilità.

Tornando al 1864, Baudelaire lascerà dunque Parigi sia per liberarsi dall’assillo dei creditori, sia per rimpinguare le scarse sostanze con una serie di conferenze sull’arte, in particolare su Delacroix e Gautier. L’impresa si rivelerà, tuttavia, un completo insuccesso; a queste letture pubbliche non andrà quasi nessuno, tanto che il programma sarà troncato quasi sul nascere. Per dare un’idea, in una lettera alla madre del mese di giugno Baudelaire confessa sconsolato, a proposito di uno di questi incontri: “Quindici erano invitati miei, e di questi ne sono venuti cinque, altri quindici erano invitati dell’organizzatore, e anche di questi ne sono venuti cinque”.

Due anni più tardi, mentre si trovava ancora in Belgio, una caduta accidentale provocherà un ictus cerebrale, aggravato da afasia e seguito da un ulteriore attacco emiplegico che lo ridurrà a esprimersi unicamente a gesti. A questo punto è costretto a lasciare la sua stanza al Grand Miroir. Viene ricoverato prima in un ospedale, in rue des Cendres, gestito da monache, che quando ripartirà chiameranno un esorcista per dissiparne le influenze negative (la variante religiosa dei processi penali). Passerà poi all’Istituto medico-chirurgico Saint-Jean et Sainte-Élisabeth, per tornare infine, niente affatto guarito né in via di miglioramento, nella sua stanza d’albergo, dove il 1’ aprile 1866 la madre lo raggiungerà per riportarselo a Parigi il 2 luglio. La situazione è tuttavia compromessa, e Baudelaire muore un anno più tardi a seguito di un nuovo ictus.

Sarà in gran misura l’ipocrita lettore delle generazioni successive – certo, pur sempre semblable e frère, simile e fratello del poeta – a riscoprirne e apprezzarne la poesia. E se è ancora per molti versi un mistero, come giustamente annotava Benjamin, che Baudelaire abbia potuto diventare l’antesignano e il fondatore della poesia moderna in un’epoca di trionfo del capitalismo, in cui negli scambi sociali la poesia era già irrimediabilmente fuori gioco, resta intatto il significato della sfida lanciata dal poeta – dandy e flâneur quanto si voglia, ma anche analista impietoso della propria civiltà perché parte integrante di essa – alla mercificazione di ogni attività umana. A partire dalla comparsa di Baudelaire, insomma, il poeta diventa il vero eroe, l’oppositore irriducibile – o non è nulla.

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