Danilo Maestosi
Su “La Battaglia del Leone di Venezia”

Il ‘600 postmoderno

Giulio Castelli entra nei segreti della storia veneziana del Seicento per raccontare il mondo dietro le quinte della guerra per il possesso dell’isola di Creta tra la Repubblica Veneta e l’impero Ottomano. Mescolando Storia e invenzione, Dumas e i pirati di Cromwell

Il vento. Inutile cercare tra i titoli di coda, nell’elenco dei tanti personaggi veri o di fantasia che popolano questo racconto, o nel prezioso glossario che lo precede. Eppure il vento, con i tanti nomi che lo battezzano e le metafore cui si presta, è il vero protagonista del romanzo La Battaglia del Leone di Venezia (Newton Compton, 684 pagine, 12 euro) con cui Giulio Castelli torna a confermare la sua vocazione di studioso di storia e inventore di trame d’avventura. Il filo d’Arianna che questo navigato giornalista-scrittore ci srotola davanti per attraversare il labirinto di accadimenti, trionfi, rovesci nel quale ha iscritto i tre livelli incrociati del suo copione.

In primo luogo, le sequenze della rovinosa guerra per il possesso dell’isola di Creta tra la Repubblica Veneta e l’impero Ottomano, tra il 1645 e il 1669: ventiquattro anni di scontri, oltre duecentomila morti sui due fronti, escludendo dal conto le migliaia di vittime civili.

In secondo luogo, il fitto intreccio di ricadute politiche, manovre, capovolgimenti, che collega questo interminabile conflitto ai mutamenti in atto sullo scacchiere dell’Occidente europeo e al continuo avvicendarsi di complotti di palazzo, ribellioni, nei domini e nella capitale del Sol Levante. Pagine di una Storia che le approssimazioni del nostro apprendimento scolastico, cattolico ed eurocentrico, normalmente trascurano e hanno contribuito ad incagliare nella leggenda dell’ultima crociata e di una data spartiacque, quella della battaglia di Lepanto del 1571, che ne sigillò gli esiti.

Vittoria controversa e tutt’altro che decisiva per l’alleanza cristiana e il controllo del Mediterraneo orientale, come dimostrano i tumultuosi e mutati scenari, le simmetrie ribaltate di forze in gioco con cui, quasi un secolo dopo, questo libro ci obbliga a misurarci. Immergendoci – eccoci al terzo livello – nel clima del Seicento, attraverso lo sguardo basso e autocentrato di uno stuolo di personaggi di finzione che si trascinano appresso vizi, pregiudizi e valori del proprio tempo, in balia di eventi più grandi, notizie che rimbalzano da lontano e irrompono in scena a sconvolgere e indirizzare le loro vite. Come folate di vento, per l’appunto.

Le stesse folate, gli stessi voltafaccia dei venti, su cui l’autore si sofferma per ricostruire l’interminabile serie di battaglie navali, che consentono ai vascelli di Venezia di sfidare e tenere a bada le flotte dei turchi, quasi sempre più numerose ma meno attrezzate a sfruttare i capricci del mare. Prolungando una guerra dall’esito quasi scontato: la difesa di Creta, invasa, assediata e controllata via terra dalle forze ottomane, resa sempre più ardua dalla distanza, duemila miglia, che la separa da Venezia.

Un susseguirsi incalzante di bombardamenti, arrembaggi, naufragi, tempeste, alternato da lunghe soste in rada o ritorni verso basi sicure, che imprime scosse e rallentamenti al racconto. Un gusto molto cinematografico che oscilla tra campi lunghi, inquadrature ravvicinate, primi piani, colma i vuoti con qualche dosato flash back per ricostruire scene e retroscena sfuggiti alla vista. E un ritmo sincopato che finisce per coinvolgere anche il lettore più distaccato. Trasformandolo in una sorta di tifoso, sospeso tra ansia ed euforia.

Anche Giulio Castelli, come ogni romanziere d’avventura, indossa la maschera del tifoso e stravede per i suoi eroi che sventolano le insegne del Leone come un radiocronista fazioso. E a volte non esita a barare, pescando a piene mani nel repertorio di altre narrazioni, altri immaginari. Come quello della pirateria cui ruba il personaggio di un comandante inglese che si è fatto le ossa tra i corsari della Tortuga. O quello di un maestro del feuilletton come Dumas, cui prende in prestito un guascone francese, reduce dell’epopea dei tre moschettieri.

Stratagemmi postmoderni che aggiungono sapore e diversivi al racconto, ma servono ad introdurre informazioni essenziali senza appesantire la lettura: l’avvento al potere di Luigi XIV in Francia, che ripristinò davvero l’ordine dei Moschettieri a presidio della sua corte di Versailles, la pirateria di Stato come baluardo contro la flotta spagnola che in Inghilterra continua sotto il breve interregno di Cromwell come era successo sotto il governo di Elisabetta.

Del tutto originale invece la cifra stilistica con cui Giulio Castelli introduce e accompagna il protagonista del romanzo, Marco Civran, patrizio veneziano e figlio di un abile mercante di cui non seguirà l’esempio e la vocazione, trascinato da altre curiosità, altri impulsi, altre attitudini esistenziali. Come una foglia al vento, appunto. Lui stesso, quando ci appare diciottenne sulla spiaggia di Chio, invaghito di un’adolescente di fede ortodossa che diverrà il doloroso miraggio della sua iniziazione amorosa e della sua crescita sentimentale, esibisce un fisico più che solido ma una personalità esile come un fuscello, sovraesposta agli umori e alle derive di un’educazione maleimpastata e maldigerita. Coraggioso ma conformista, una sensibilità a fior di pelle che gli consente di adattarsi agli sbalzi e agli eccessi di stagione, al freddo e al caldo, al profumo e al lezzo, senza preoccuparsi troppo di dove sta andando, ma registrando ogni sensazione, ogni emozione come un barometro. Eroe e antieroe, testimone e capro espiatorio. In fondo, a suo modo uno specchio, di cui con abile e calcolato distacco Giulio Castelli si serve per descrivere e farci rivivere gli abissi di miserie, soprusi incertezze della società seicentesca. Trascinandolo come una marionetta di sciagura in sciagura. A Venezia come a Costantinopoli. Di prigione in prigione. Ostaggio e vittima di poteri ottusi e implacabili, come quelli dell’Inquisizione. Da un orrore ad un altro. Il fiato della morte, sempre sul collo. Protetto da una generosa fortuna che gli volta le spalle solo in amore, di cui resta a lungo incapace di cogliere ambiguità e sottigliezze, schiavo di un copione da maschio dominatore scritto da altri, che gli impedisce di penetrare nell’animo femminile. E di un destino che lo inchioda al rimpianto di occasioni perdute. Portate via dal vento implacabile e vorticoso della storia, che sfugge alla consolazione del lieto fine.

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