Raoul Precht
Periscopio (globale)

Doppio Max Frisch

Max Frisch, coscienza critica del Novecento, è un autore tutto da rileggere. Per ritrovare il senso del suo conflitto tra volontà e caso, tra il primato della razionalità e la tirannia della casualità. Nel suo teatro come nei suoi romanzi

Il suo romanzo più famoso e acclamato, Homo faber, del 1957, può essere un valido punto di partenza per avvicinarsi all’opera di Max Frisch, drammaturgo e romanziere svizzero che, insieme al compatriota di poco più giovane Friedrich Dürrenmatt, del quale abbiamo parlato recentemente (vedi https://www.succedeoggi.it/wordpress2021/02/durrenmatt-e-il-caso/), ha rappresentato una delle coscienze critiche più significative del Novecento, almeno per la letteratura di lingua tedesca. Il romanzo, scritto in una prosa asciutta, rigorosa e aliena da qualunque concessione al pathos, è basato su una delle costanti nell’opera di Frisch, il dissidio fra razionalità e irrazionalità, fra scetticismo e fede, fra solipsismo e apertura agli altri, con un protagonista, l’ultracinquantenne ingegnere Walter Faber, che è la quintessenza del pensiero scientifico e tecnico. Razionalista puro, crede di essere perfettamente al riparo da qualunque alea e dai tormenti della casualità. Mal gliene incoglie, come scoprirà presto il lettore, perché la realtà non si lascia piegare a formule astratte e predeterminate, per precise che possano apparire. Ed ecco che un atterraggio d’emergenza nel deserto, il suicidio di un amico nella giungla messicana, l’amore di una donna molto più giovane (che scoprirà poi essere sua figlia, avuta da una ex amante lasciata da tempo) diventano altrettanti elementi di disturbo, prima, e prodromi di una graduale, forzosa apertura all’imponderabile, poi. (Avviso per i cinefili: non indimenticabile, ma comunque interessante l’omonimo film del 1991 di Volker Schlöndorff, protagonista un Sam Shepard forse un po’ troppo giovane.)

Morto trent’anni fa, il 6 aprile 1991, a Zurigo, dove era nato nel 1911, Frisch albergava in effetti in sé due personalità ben distinte: da un lato quella dell’architetto laureatosi al blasonato Politecnico zurighese – professione che per diversi anni ha esercitato, e anche con un certo successo −, per il quale l’esecuzione dei progetti deve necessariamente corrispondere a un disegno preordinato e a calcoli rigorosi, e dall’altro quella dello scrittore, tendenzialmente aperto invece proprio a quell’irruzione dell’irrazionale che la prima personalità non può permettersi.

Uscito tre anni prima di Homo faber, il romanzo precedente di Frisch, Stiller, è un divertissement angoscioso, se mi si concede l’ossimoro, sul tema dell’identità: qui il protagonista, tale Mr White, è scambiato al suo ingresso in Svizzera con un certo Stiller, uno scultore scomparso. L’identità è confermata da amici, dal fratello e dalla moglie dello scrittore, ma non dallo stesso White, il quale dal carcere preventivo in cui è detenuto insiste invece sulla propria versione dei fatti, ribadendo al tempo stesso la libertà dell’individuo di essere se stesso, ma anche altro da sé. Cosa che Frisch mette poi direttamente e brillantemente in pratica attraverso una serie di racconti interpolati, riversando in parte sul lettore la responsabilità di partecipare attivamente al gioco e di condividere l’incertezza che presiede alla scrittura in quanto attività serissima ma (anche) ludica. Il tema dell’identità s’intreccia con quello dell’autenticità e della difficile arte di ricreare il reale tentando non di descrivere la realtà, ma d’inventarla, e dichiarandolo apertamente.

Rimanendo in campo narrativo, nel 1964 uscirà Mein Name sei Gantenbein (Il mio nome sia Gantenbein), come i romanzi precedenti godibile e denso patchwork di episodi illuminanti e a un tempo stranianti. Il protagonista, il cieco Gantenbein, racconta le proprie esperienze inanellando storie di cui non si sa bene se siano state, almeno nella finzione narrativa, davvero vissute, o se non rappresentino una finzione di secondo grado. Forse il più filosofico dei romanzi di Frisch, nel testo non mancano riferimenti precisi alle trappole della storia contemporanea come pure all’alienazione e all’insignificanza del mondo moderno. Dal punto di vista compositivo, come rileva l’amico e collega Peter Bichsel, è anche il romanzo nel quale più evidente si fa l’assenza di un programma preciso e aprioristico nella scrittura di Frisch.

Ma il Nostro passa alla storia letteraria del Novecento anche per il teatro, del quale si occupa attivamente lungo tutta la sua carriera letteraria, e con una certa originalità, pur concedendo almeno agli inizi qualcosa di troppo, in termini di costruzione, alle teorie di un già famoso Brecht, che incontra nel 1947 e da cui è indubbiamente influenzato. Al repertorio teatrale Frisch lascia opere di grande successo, ma anche di notevole profondità e spessore, tra cui vanno ricordate almeno Don Juan oder die Liebe zur Geometrie (Don Juan o l’amore per la geometria), del 1953 − una rivisitazione molto personale del mito dongiovannesco, dove le donne sono più temute che amate e le regole geometriche sono in certo senso antecedenti e superiori alla passione amorosa −, e le due parabole Biedermann und die Brandstifter (Omobono e gli incendiari), del 1958, e Andorra, del 1961.

La prima di esse, come recita l’ironico sottotitolo, è un “dramma didattico senza insegnamento”, tutto incentrato sull’ipocrisia e sulla debolezza di un protagonista piccolo-borghese, Biedermann (letteralmente, onest’uomo; e, diremmo, niente di più), il quale, per propria debolezza e per l’incapacità di rifiutare alcunché a chicchessia, alberga in casa propria un manipolo d’incendiari, le cui attività diverranno sempre più evidenti a chiunque (salvo che allo stesso Biedermann, il quale non vuole assolutamente vedere ciò che avviene proprio sotto i suoi occhi), fino al momento in cui in città scoppiano vari gravi incendi e salta addirittura in aria il gasometro. Cosa che nel finale porta il pusillanime protagonista a consolarsi perché per fortuna, e malgrado tutto, nulla è successo a casa sua.

Quanto ad Andorra, è il tentativo più serio di Frisch verso un teatro di riflessione scevro non da ironie, ma certamente da qualunque accento farsesco. In una città chiamata Andorra che, come precisa il drammaturgo, con il vero staterello pirenaico non ha nulla a che vedere, un giovane, ritenuto dai concittadini “ebreo” e dunque ostracizzato e perseguitato, viene maltrattato fino al triste epilogo. Si saprà in seguito, ma troppo tardi, che di ebreo non aveva nulla e che era anzi un andorrano come tutti gli altri, e che le sue sofferenze sono dipese unicamente dal conformismo e dal perbenismo della comunità in cui si è trovato a vivere.

Per questi due ultimi drammi la genesi è piuttosto lontana nel tempo, affonda nel periodo del citato incontro con Brecht e le sue teorie e va ricostruita partendo dal Tagebuch 1946-49, uscito nel 1950, che malgrado il titolo non è affatto un diario in senso tradizionale, ma semmai un volume misto di storie, appunti, bozze, resoconti di viaggio, interventi politici, manifesti programmatici e quant’altro. In esso compaiono tra l’altro dei testi in prosa recanti in nuce le medesime vicende e riflessioni che Frisch svilupperà in seguito nelle rispettive opere teatrali. Più tardi, nel 1972, di cosiddetti diari ne uscirà anche un altro, il Tagebuch 1966-71, con caratteristiche analoghe, e quindi più un serbatoio di pensieri, idee e canovacci che non la puntigliosa ricostruzione di un’esperienza esistenziale. Entrambi i “diari” si rivelano comunque di enorme interesse per seguire lo sviluppo delle tematiche e delle idee dello scrittore.

Tanto Andorra quanto Gantenbein escono nei cinque anni di soggiorno romano – sebbene con qualche puntata in Svizzera – contrassegnato dalla difficile convivenza con la poetessa Ingeborg Bachmann. Sarà anzi proprio il romanzo a fare da catalizzatore della fine di un amore burrascoso che si stava trascinando stancamente; proprio come quando, dieci anni prima, in occasione dell’uscita di Stiller, Frisch aveva messo fine al suo primo matrimonio e alla vita familiare, come se fra la sua esistenza e quella dei suoi stessi personaggi vi fosse un nesso per nulla fortuito o casuale. Da notare che in seguito, dopo aver lamentato di essere stata effigiata da Frisch nel romanzo in termini non troppo lusinghieri, come mero “oggetto di studio”, a mo’ di risposta o di ritorsione letteraria la Bachmann inizierà nel 1966 a sua volta un romanzo, Malina, che tuttavia non uscirà prima del 1971 e che rappresenta il serrato tentativo di scandagliare la propria personalità ambivalente anche attraverso la constatazione dell’irriducibile estraneità all’amato.

Tornando a Frisch, da ricordare ancora ci sarebbe almeno il racconto lungo Montauk, uscito nel 1975, in cui uno dei personaggi principali (nel libro con il nome di Lynn) è in realtà una, e forse la più importante, delle assai più giovani amanti a cui il brillante conversatore e viveur Frisch si è di volta in volta accompagnato. Novella dichiaratamente autobiografica, Montauk è incentrato sulla vita amorosa e in particolare sulle difficoltà e sui patemi di quella matrimoniale (Frisch si era nel frattempo risposato e aveva lasciato anche la seconda moglie per andare a vivere appunto con la giovane deuteragonista della novella). Per i cinefili, anche questa novella sarà utilizzata quale base da Volker Schlöndorff per un altro film dal titolo Rückkehr nach Montauk (2017), con protagonista, nei panni del maturo Max, l’attore svedese Stellan Skarsgård.

In età più avanzata, Frisch partecipa con sempre maggiore impegno alla vita politica, avvicinandosi in particolare alla SPD di Helmut Schmidt, tanto da far parte, nel 1975, della delegazione tedesca che si reca in Cina. In seguito, un prolungato soggiorno a New York coinciderà con una serie di lezioni al City College, dove Frisch sarà invitato, nel 1981, a discutere della propria poetica. Le lezioni saranno poi riunite da Suhrkamp con il titolo Schwarzes Quadrat (Quadrato nero), allusione del tutto voluta al famoso e omonimo quadro di Kazimir Malevič, tenuto nascosto nelle cantine del museo di Pietroburgo affinché il popolo sovietico non potesse vedere che accanto ai quadri del realismo socialista esisteva anche un’altra possibile realtà, o almeno un diverso modo di esprimerla. Qui Frisch definisce la scrittura come la “legittima difesa contro l’esperienza dell’impotenza”, con il corollario dell’impossibilità di ogni istanza realistica e il primato, a cui abbiamo già accennato, dell’invenzione sulla resa pedissequa della realtà. “La verità non si può descrivere,” aggiunge Frisch, “solo inventare”, tenendo tuttavia sempre conto del fatto che non esiste “finzione che non sia fondata sull’esperienza”. Nel concetto (molto ampio) di esperienza rientra tutto, dalla vita amorosa alle convinzioni politiche, dai gusti personali alle scelte di vita, determinando implicitamente la possibilità di una creazione letteraria che sia superiore all’esistenza, in quanto ne rappresenta la versione utopica e migliorata. “Quello che ci sta a cuore, l’essenziale,” aggiunge Frisch, “nel migliore dei casi si lascia circoscrivere, il che significa letteralmente: scriviamo girandogli intorno. Lo si accerchia. (…) Si tiene la penna come l’ago di un sismografo, ed effettivamente non siamo noi che scriviamo; veniamo scritti. Scrivere vuol dire: leggere se stessi. La qual cosa di rado è un puro piacere.” Non è un caso, allora, che nella stragrande maggioranza dei casi i personaggi di Frisch, com’è probabilmente avvenuto al loro creatore, falliscano nel loro approccio alla realtà; e non desta nemmeno meraviglia che la lettura dei suoi testi spinga costantemente il lettore a una riflessione che non gli fa solo rimettere in causa le proprie certezze e i fondamenti della propria vita, ma lo spinge a cercare delle alternative. E a riconoscere in via preventiva, proprio come fa lo scrittore quando si accinge a scrivere: “ciò che ho in testa io, è il caos.”

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