Flavio Fusi
Cronache infedeli

Per Mario Villani

Ricordo di uno dei protagonisti degli orrori argentini appena scomparso. Mario Villani, un "giusto alla fine del mondo", fu imprigionato dal regime e se riuscì a sopravvivere fu solo perché il suo talento di scienziato era necessario dagli aguzzini

Ora che  Mario Villani è morto – in pace finalmente con il mondo e con gli uomini – posso accommiatarmi da lui e salutarlo ricordando a me stesso il nostro breve e unico incontro. A Buenos Aires è un giorno qualunque della primavera australe di diciassette anni fa: io e il flaco (il “secco”), siamo seduti su una panchina scaldata dal sole. Di fronte  a noi scorre il traffico incessante di Avenida del Libertador. Alle nostre spalle, al vertice di un labirinto di verdi giardini, incombe la mole bianca dell’Esma: il villone pretenzioso nei cui sotterranei si aggirano ancora i fantasmi ghignanti di un’epoca infame.

Mentre questo signore ossuto, timido e miope mi racconta un pezzo della sua vita, rifletto che la Escuela de mecànica de la Armada (Esma) è come l’Argentina dei generali: una bianca, elegante signora dalle mani sporche di sangue. Qui il giovane Mario Villani – fisico di professione, ragazzo di buona famiglia, simpatizzante di sinistra – visse l’ultimo atto del lungo calvario che lo portò in tre anni e otto mesi a percorrere tutti i gironi infernali che la dittatura aveva costruito per disperdere e annientare una intera generazione di argentini.  

Mi chiedo: perché quest’uomo è ancora vivo? La domanda – che non pronuncio – è la stessa che lui rivolge a se stesso dal giorno ormai lontano della liberazione: «Perché sono ancora vivo, e perché tra tutti i miei compagni di sventura io solo sono stato risparmiato?». Mentre parliamo mi accorgo che per lui questo non è più un interrogativo, ma una croce, un rovello, un dolore che ancora brucia. La storia, in breve: famiglia di ceto medio urbano, laureato in fisica presso l’università de La Plata, brillante ricercatore, Mario Villani viene sequestrato il 18 novembre del 1977. Da allora scompare alla vita, agli amici, alla famiglia, al mondo. Per riemergere infine miracolosamente vivo nell’ agosto del 1981, quando la dittatura crolla come un castello di carte dopo la guerra perduta delle Malvinas.

Mario Villani

Mario è un sopravvissuto, e deve la salvezza proprio alla sua storia personale. Nel labirinto della prima detenzione gli aguzzini verificano che la picana, l’orribile strumento di tortura che trasmette scariche elettriche ai condannati, non funziona a dovere: la tensione è troppo bassa o troppo alta, non tormenta a sufficienza o brucia letteralmente il condannato. Nell’universo concentrazionario in cui tutti conoscono tutti, si sa che quel ragazzo – il nuovo arrivato – è un tecnico, un fisico, uno che conosce bene ogni apparato elettrico. Così i carcerieri si rivolgono a lui perché li aiuti a sistemare la picana. All’inizio Mario rifiuta, disgustato dalla prospettiva di rendersi complice del boia. Poi ci ripensa, e accetta tra mille dubbi.

Da quel momento la sua capacità diventa indispensabile, e da quel momento Mario ogni volta regola la picana con un commutatore di corrente che trasmette scosse più lievi. Mi dice: «Così i miei compagni soffrivano di meno, ma nello stesso tempo la tortura poteva durare di più. Una parte di me appariva caritatevole, un’altra parte si sentiva responsabile: complice, in ogni caso. Imparai a giustificarmi, a stare zitto e a lavorare per loro in silenzio. Non so se è per questo che sono ancora vivo…».

Il sapere, la scienza, la manualità del Flaco diventano così la sua assicurazione sulla vita: il fragile diaframma che divide l’esistere ancora dal non esistere più. In ognuno dei cinque campi di detenzione clandestina in cui viene trasferito, il detenuto Mario Villani è accompagnato dalla sua piccola fama. Non c’è solo la picana: di volta in volta bisogna riparare gli impianti elettrici delle auto dei torturatori, calibrare le attrezzature radio, mettere a punto i televisori, i frigoriferi e gli elettrodomestici che fanno parte del bottino di guerra rubato nelle case dei sequestrati.  

Questa sua esperienza, il Flaco se la porterà dietro per tutti gli anni della ritrovata libertà. Tribunale dopo tribunale, deposizione dopo deposizione, questo implacabile testimone descriverà “il mondo di sotto” e le sue regole. Nel campo, in cella, nei sotterranei, nei garage, si applica infatti una didattica nuova. La vita di uno studente, di un operaio o di un contadino non vale niente. La vita di un professore, meno di niente. La vita di un muratore, vale se e fino a che uno dei torturatori ha bisogno di rinnovare l’appartamento. La vita di una ragazza incinta vale fino al parto. Dopo, è solo un intralcio, perché il neonato – affidato in adozione clandestina – non dovrà mai scoprire il nome della sua vera famiglia.

La “nuova didattica” è inesorabile. Nel suo straordinario libro L’isola del silenzio (Fandango edizioni, 2006) Horacio Verbitsky racconta di accanite partite di calcio tra detenuti ed aguzzini. Dopo poche ore qualche giocatore può essere ucciso, morire per mano del boia, o più semplicemente sparire, per essere rimpiazzato in campo nella partita successiva: l’importante è non chiedere, non voler sapere, non interrogarsi. Nel club Atletico, un sotterraneo vicino al porto, la cella di Mario era accanto al quirofano, la stanza della tortura: «Imparai a dormire mentre gli altri gridavano».

Questo racconta il Flaco ai giudici e a se stesso: anno dopo anno, in una testimonianza lunga una vita. Oggi credo – spero – che abbia trovato la pace, che quell’interrogativo che lo tormentava abbia trovato finalmente una risposta.  Sono passati diciassette anni da quella nostra “charla” sulla panchina davanti all’Esma. Al termine, lo vedo ancora attraversare quasi di corsa, goffo, un po’ ingobbito, il traffico convulso dell’Avenida. Arrivato infine al marciapiede, mi saluta con la mano. Amico, compagno di classe, fratello maggiore.

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