Flavio Fusi
Cronache infedeli

Incubi d’Africa

Ieri Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, oggi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustafà Milambo: l'Africa è un continente ferito dove è difficile addirittura distinguere il male dal bene; la verità dalla menzogna

Nella notte senza luna i fuochi degli accampamenti brillano sulla vasta pianura sotto la collina, come in riva a un lago nero che corre a sud e si perde fino alle fioche luci della lontana Nyamyumba. Alle spalle, quello che resta di Goma è un fantasma velato in un opaco alone giallo. Arriva fino a noi un ronzio insistente di voci notturne impastate a rumori di strada. 

Nel giorno, sotto le vaste tende bianche di Medecins sans frontieres, si cammina in un acquitrino di fango, vomito e sangue. È successo quasi trenta anni fa, accompagnando la marcia dolente della moltitudine che dai campi di prigionia dell’est del Congo torna ai villaggi del Ruanda. Una mesta transumanza, mezzo milione di esseri umani in movimento: negli accampamenti improvvisati si muore di vaiolo, di spossatezza e fame, di dissenteria. Su fuochi di legna e dentro le pentole di latta si cuoce l’erba strappata ai campi, qualche radice scavata dalla terra rossa, una banana fradicia. Un pezzo di pane regalato significa arrivare a sera e sperare in un altro giorno di vita.

Ancora ad est, tra la petite barrière e la grande barrière, i posti di blocco che segnano l’incerto confine statale tra Ruanda e Congo, si muore invece di guerra.

Le bande di Laurent Kabila – che muovono da qui per conquistare il corpaccione inerte dell’immenso territorio congolese – non risparmiano nessuno. Hanno messo a ferro e fuoco Goma, hanno spogliato i profughi fino all’ultimo miserabile centesimo, stuprano le donne e reclutano a forza i bambini, lavorano sulle vittime di mazza e machete. Spingono il gregge verso Ovest, hanno fretta di ripulire il Kivu dai ruandesi hutu fuggiti due anni fa dopo il genocidio dei tutsi. Un macello da cui il mondo civile ha distolto lo sguardo, una resa dei conti tra signori della guerra spacciata da ineluttabile vendetta etnica e tribale. “Maschere per un massacro”, appunto. Ricordo: le vie disselciate della città di frontiera sono percorse da camion scoperti dove si ammassano mucchi di cadaveri scortati da infermieri militari simili a monatti con la faccia coperta. Dove corrono? Dalla periferia ai bordi della giungla salgono al cielo lunghe colonne di fumo e nelle fosse comuni si brucia quello che è possibile bruciare.

Mai nella mia vita sono stato così vicino alla morte. Sospesi su quell’infame discrimine che separa – come una fragile membrana – l’essere dal non essere più. In città, una squadra di miliziani ha sventrato il magazzino della fabbrica di birra. Sotto la falce inesorabile del sole di mezzogiorno, i soldati sono già tutti ubriachi. Dall’altra parte della strada, quello che sembra il capo agita il frustino verso di noi e grida qualcosa che non capisco. Prima regola del manuale di sopravvivenza: non guardare, abbassare la testa, tenere le mani vuote e bene in vista, confondersi con il marciapiede, impastarsi con i muri di cinta e con il fosso, sparire alla vista nella scarpata che sfocia in un torrente lercio e puzzolente. 

Tutto questo, quasi trenta anni fa. Ma l’Africa di oggi è come allora: lo sfascio di un Continente, un grumo di dolore e violenza, un gigantesco tradimento della civiltà. Così, leggi i giornali di questi giorni e immagini che il convoglio dell’ambasciatore italiano abbia percorso la tua stessa strada, scarrocciando lungo la cresta di confine tra Congo e Ruanda, arrampicandosi su una pista stretta, con a sinistra le pendici verdi dei monti Virunga e a sud i riflessi metallici del grande lago Kivu.  Immagini poi l’agguato e i colpi, il frastuono delle voci e quei corpi estratti a fatica dall’abitacolo crivellato.

È già successo mille volte, mille volte ancora succederà, ma una volta di quelle mille sta stampata per sempre nella memoria. Rivedo la stessa scena, questa volta dentro il traffico caotico di una città: a Mogadiscio l’agguato in piena luce, decine di bossoli sull’asfalto, il colpo di grazia e i corpi di Ilaria e Miran trascinati fuori della jeep, lei con la testa reclinata sul petto come nel sonno. Venticinque anni fa: il tempo non fa sconti, i testimoni – come i genitori di Ilaria – sono tutti morti, o scomparsi, o dimenticati.

A Mogadiscio ci sono stato, dopo, e bisogna fare ancora il conto degli anni: più di venti anni fa. Allora incontrai politici e capibastone, leader religiosi, funzionari e venerati dignitari, uomini forti dei clan. Dell’agguato tutti sapevano tutto e non sapevano niente. Mentivano, e mentendo senza vergogna giuravano sulla madre, sugli antenati, sui figli. C’era più verità nella strada dell’agguato che nelle loro parole. E su quella strada – tra lo strepito indifferente del traffico – mi sembrò di vedere i segni della frenata della Jeep e un grumo di sangue sull’asfalto crepato. Illusioni, certo, forse il tentativo infantile di dare sostanza a un ricordo che si sfrangia. Nelle foto di famiglia quasi sempre si sorride. In questa immagine pubblicata dai giornali ride il giovane ambasciatore, sorride la moglie – una ragazza – ridono le tre bambine vestite di bianco. Così sorridevano – in una foto che ancora conservo – Ilaria e Miran: lei come al solito con aria pensierosa, lui con quel barbone. Oggi i corpi dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci  vengono ricevuti in Italia con tutti gli onori.  Ilaria e Miran – mi sembra di ricordare – nemmeno quello. Ma davvero non importa: in queste latitudini di sofferenza, a morire sono quasi sempre i migliori. Per questo forse mi sembra di conoscere da sempre l’ambasciatore e il carabiniere e l’autista Mustafà Milambo. Così come conoscevo e ancora conosco Ilaria e Miran.

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