Flavio Fusi
A proposito di "Cielo di mezzanotte"

Il futuro di Clooney

Il nuovo film di fantascienza di George Clooney è uno specchio (inconsapevole?) del mondo isolato e desertico così come è stato trasformato dalla pandemia. Ma un viaggio verso la terra promessa ci salverà...

Entri in casa, ti scrolli la pioggia di dosso e chiudi fuori della porta una turbinosa giornata invernale. Cosa di meglio, nel tepore del focolare domestico, che sintonizzare lo schermo tv su un film di fantascienza post-apocalittica? “È proprio quello che si definisce: cozy fun, un confortevole passatempo”, scrive Ben Child su The Guardian.

Ma portiamo ai nostri giorni il placido quadretto domestico: se fuori della porta incombe un virus orribile pronto a sbranarti, se l’orizzonte politico è devastato dalle orde vandaliche del populismo di destra, se l’intero pianeta si avvia a tappe forzate verso la catastrofe ambientale, oggi la visione di un film post-apocalittico è “confortevole come immergersi nudi dentro una vasca piena di ghiaccio e di acuminate schegge di vetro”. Così, con humor acidamente britannico, il critico del quotidiano londinese affronta la recensione dell’ultimo film scritto, interpretato e diretto da George Clooney. E fin dall’incipit, in modo scherzoso ma non troppo, avverte: mai come in questo caso, occorre distinguere il testo dal contesto.  

E dunque, il testo. Nel bene e nel male, forse più nel male, il Cielo di Mezzanotte si iscrive a pieno titolo nel filone della fantascienza post-apocalittica, accumulando in quasi due ore di proiezione tutto il campionario e la parafernalia di questo onorato genere letterario.  Intanto, un morbo o una catastrofe o una guerra che riduce il nostro povero pianeta a un luogo deserto e inospitale. Poi un vecchio scienziato recluso in un osservatorio sperduto nel nulla artico, tra tempeste di neve, lupi in agguato e una bambina da proteggere. E ancora, una maestosa astronave in viaggio tra le galassie. Infine, la terra promessa: un pianeta remoto da colonizzare, dove seminare una nuova vita tra boschi argentei e tramonti di fuoco.  

Noi antichi lettori di Urania conosciamo bene questi ingredienti, che un barbuto George Clooney – in irsuta versione Santa Claus – miscela con la consueta maestria, tra silenzi e impennate drammatiche, consegnando allo spettatore un testo cinematografico raffinato eppure rivisto, un po’ esangue, senza soprassalti di emozione né sorprese.

Ma un film è un prodotto complesso, uno spettacolo che una volta confezionato è affidato al mondo come una navicella spaziale, esposta a venti cosmici e piogge di meteoriti. Se il mondo cambia mentre sei in viaggio, cambia anche il tuo personale significato. Così lo spiega l’autore in una intervista al New York Times: “Dopo che abbiamo finito di girare è arrivata la pandemia, e solo allora è stato chiaro che la nostra storia raccontava il disperato bisogno di essere a casa, il disperato bisogno di essere vicini ai nostri cari, insieme ai nostri simili. E quanto sia difficile questa impresa che pure sembra elementare: l’umana necessità di comunicare l’uno con l’altro”.

Il contesto, appunto. Mentre il pubblico – dico noi audience – assiste allo spettacolo ciascuno chiuso nella sua celletta, il regista se ne sta ritirato nella sua casa di Londra con moglie e numerosa prole al seguito. Fuori, possiamo immaginare il vuoto di una capitale deserta e orfana di umane presenze. Che panorama inaspettato, il nulla della realtà che circonda il nulla della fiction! Il deserto di Londra e delle nostre città intorno a una storia che racconta altri deserti: il deserto artico e il deserto cosmico, il deserto di un pianeta che dall’oblò dell’astronave appare avvolto da una sporca caligine che oscura oceani e continenti.

Intorno alla genesi di un film c’è sempre molto da raccontare, o da inventare. Nella storia e anche nella realtà l’attrice Felicity Jones è incinta. E non sappiamo – né ci interessa – se quello che giura il regista sia cronaca o invenzione. “Insomma, giravamo da tre settimane in Islanda, quando Felicity ci chiama al telefono. Dice: la volete sapere la novità? sorpresa: sono incinta. Così abbiamo dovuto girare di nuovo le scene già fatte con lei, perché aveva il pancione. E sai che ti dico? La versione migliore è quella in cui tu accetti quello che succede. E le donne rimangono incinte, succede”.

Il contesto con le sue sorprese – una pandemia e l’attrice protagonista incinta – modella il testo, e una nuova vita in arrivo cambia tutto il significato della storia. Così il regista può dichiarare: “Senza gli ultimi cinque minuti, questa sarebbe stata una storia di rimpianti. Per tutto il film il protagonista cerca disperatamente una redenzione, e a sorpresa la redenzione finalmente arriva. Alla fine io stesso ho scoperto che abbiamo raccontato una storia piena di speranza”. Negli ultimi fotogrammi l’astronave con il suo carico di umane, tremule speranze veleggia nel cosmo verso la nuova terra promessa. Noi vecchi terrestri e spettatori siamo invece per sempre incatenati a questo sperone di roccia, nebbie e materia infuocata. E il lieto fine non è scontato.

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