Flavio Fusi
Cronache infedeli

I dimenticati d’America

Vengono da tutta l'America centrale e sono diretti alla frontiera con gli Usa, dove sperano che l'arrivo di Biden cambi le cose. Oppure sono gli immigrati criminalizzati e deportati. Il nuovo presidente ha un'emergenza in più da affrontare...

Dal cortile, che non frequento da anni, viene un rumore confuso, qualcosa che risuona come preghiera e rabbia, grida e ossa spezzate. La mia camera è confortevole e non manca di nulla. Dico: lo spazio sorvegliato in cui siamo auto-reclusi da quasi un anno per il terrore del morbo e del contagio, sordi e ciechi al mondo ostile che ci circonda.  Qui abbiamo tutto quello che serve per un lungo assedio, compresi vetri insonorizzati e pareti robuste, in grado di respingere ogni assalto. Ma questa mattina il rumore è troppo insistente e molesto. Così, sarà per stanchezza, per noia o forse per curiosità, resisto all’istinto che mi sussurra prudenza e forzo gli arrugginiti battenti della finestra. Faccio dunque un bel respiro profondo e mi affaccio al mondo di sotto.

Nel cortile, proprio sotto il mio balcone, si snoda una larga strada, un filo d’asfalto che corre sotto il sole tra case basse e boscaglia. Su questa strada centinaia di agenti in grigia uniforme antisommossa – sembrano i manipoli armati di guerre stellari – si accaniscono su una folla compatta di uomini donne e bambini, li ricacciano indietro a furia di bastonate e lanci di bombe lacrimogene. Di fronte a questo argine violento la folla arretra, ma poi – proprio come una marea – torna a ruggire, ad avanzare, sfidando le botte e gli arresti. È acqua, questa folla, e come l’acqua fugge in mille rivoli, accerchia e supera la barriera degli armati, si lancia a corsa – donne che portano in braccio e sulle spalle i bambini, uomini con borse a tracolla, ragazzi che saltano come stambecchi – si dà alla fuga nelle campagne.  

Quella strada, la conosco bene: è la Carretera Once, che dal dipartimento guatemalteco di Chiquimula conduce alla capitale. E anche quella folla la conosco bene, perché la folla degli esuli e dei migranti è sempre diversa, ma sempre uguale a se stessa, attraverso tutti i tempi e le geografie. La carovana – questa carovana – è partita qualche settimana fa da San Pedro Sula, in Honduras, e lungo la strada ha raccolto altre centinaia di migranti. Erano in novemila quando hanno passato la frontiera con il Guatemala, in novemila quando sono stati affrontati e pestati dalla polizia a Vado Hondo.

Il “muro” tra Usa e Messico

Ora, dicono le cronache, i camminanti sono molti meno, ma la marcia continua, accanita e disperatamente testarda. I superstiti devono passare il Guatemala, affrontare i grandi spazi del Messico alla mercé di una polizia violenta e con le bande armate dei narcos sempre in agguato, dovranno infine attraversare la frontiera con gli Stati Uniti.  Cammineranno per centinaia e centinaia di chilometri, un esodo biblico dove la stella cometa è la speranza nel futuro che si è accesa a Washington, dopo la vittoria di Joe Biden e la vergognosa uscita di scena di Donald Trump.

«Partiamo con il cuore a pezzi», dice una donna della carovana. «Ce ne andiamo perché il nostro Honduras è morto», aggiunge una sua compagna. Un paese morto: anche questo possiamo vedere se dalla nostra cameretta rivolgiamo lo sguardo giù, verso il polveroso cortile di casa. La pandemia del Coronavirus ha innescato in America Latina la peggiore crisi economica degli ultimi 120 anni. Peggio: nel dimenticato far west della regione centroamericana, al fallimento dello Stato, alla povertà endemica e alla violenza delle bande criminali si è aggiunta negli ultimi mesi l’immane distruzione provocata dalla furia degli uragani Eta e Iota.

La fame, come si sa, è contagiosa. Così, altre carovane si preparano a partire dal Guatemala e dal Salvadòr.  «La fame– scrive sul New York Times lo scrittore Jorge Ramos – è più forte dalla paura». Il nuovo fenomeno non passa inosservato: delle carovane che tentano di raggiungere gli Stati Uniti Joe Biden ha parlato con il presidente messicano Manuel Lopez Obrador ben prima della cerimonia di insediamento. Si tratta, e non sarà compito facile, di disinnescare questa bomba a tempo piazzata sulla strada del nuovo corso nordamericano dalla rovina economica e sociale di quel vasto territorio che una volta Washington definiva  con orgoglio e disprezzo  il cortile di casa.  

Ma quello dei camminanti è solo il primo girone dell’inferno migratorio che la nuova Casa Bianca deve affrontare. Il secondo è il girone dei respinti: decine di migliaia di immigrati espulsi dagli Stati Uniti e intrappolati in campi di prigionia messicani lungo la rotta migratoria e nelle località di confine di Nuevo Laredo, Matamoros, Mexicali e Reynosa. In vigore dal gennaio 2019, i protocolli statunitensi sulla migrazione hanno costretto più di 62mila richiedenti asilo a tornare in Messico in attesa che la loro domanda venga esaminata. Oggi decine di migliaia di respinti vivono in campi improvvisati, veri e propri lazzaretti esposti alle violenze quotidiane di bande di taglieggiatori e banditi. «A Nuevo Laredo – denunciano gli operatori di Medici senza frontiere – assistiamo intere famiglie che non escono più dai loro rifugi per paura di essere rapiti od uccisi». I pazienti soffrono di ansia, depressione e stress post-traumatico, provocati dal pericolo di essere bloccati in Messico e dall’incertezza sul futuro: «Vivono in un limbo, sono traumatizzati, affamati e terrorizzati».

Il terzo girone infine è il girone dei bambini. Un reportage del quotidiano britannico The Guardian racconta la storia di Alvaro Hernandes, un giovane guatemalteco che da dodici anni vive con la famiglia in un piccolo centro del Kansas. Alvaro è sposato, parla inglese, paga l’affitto, lavora duramente in un allevamento di bestiame: sei giorni la settimana, a volte dieci ore al giorno, con una paga oraria di 10 dollari.

Famiglia, casa, lavoro, come nelle migliori storie a lieto fine. Ma nel curriculum di questo cittadino modello c’è una macchia indelebile: Alvaro è un indocumentado, cioè immigrato senza documenti, cioè cittadino illegale, cioè criminale per i segugi dell’ amministrazione Trump. Così il 20 giugno scorso – pochi giorni dopo che la moglie ha dato alla luce una coppia di gemelle – l’uomo viene arrestato e deportato in Guatemala. Da quel giorno Alvaro – che nel campo di detenzione è stato anche infettato dal coronavirus – vive separato dalla famiglia rimasta in Texas. L’ultimo contatto risale a una video-chiamata di inizio gennaio. Dice la moglie: «Piangeva e piangeva, non faceva altro che piangere. Non so se lo rivedrò più…».

Moltiplicate per diecimila la vicenda di Alvaro, e avrete la dimensione dell’incubo. Le organizzazioni americane per la difesa dei diritti civili hanno calcolato che nel 2020 sono state realizzate 185mila deportazioni, senza rallentamenti nemmeno durante l’emergenza del coronavirus. La politica di tolleranza zero predicata da Trump e praticata dall’aprile del 2018 ha diviso decine di migliaia di famiglie e separato forzosamente migliaia di bambini e ragazzi dai loro genitori.  La parola giusta è: deportati. Peggio, si è scoperto che questa prassi veniva applicata fin dal 2019, in base a un programma-pilota segreto, degno di una pratica nazista. Questo vedo oggi, in un angolo polveroso del nostro comune cortile, prima di chiudere e sprangare la finestra.

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