Lucia Dell’Aia
“Filosofia della resistenza”

Liberi con Sofocle

Lo spirito di resistenza in Antigone, Elettra e Filottete. Tre brevi e significativi testi di Simone Weil, attraverso i quali, recuperando il teatro sofocleo, la filosofa che «aderì a modo suo» al partito dei poveri e degli oppressi intendeva nutrire la sensibilità operaia

Quando nel 1936 a Simone Weil fu concesso di pubblicare sulla rivista operaia “Entre Nous” un suo breve testo nel quale interpretava la tragedia sofoclea di Antigone, la filosofa chiese che venisse usato come suo pseudonimo quello di Cleante, che, come spiega lei stessa in una lettera, era «il nome di un greco che univa lo studio della filosofia al mestiere di portatore d’acqua». Questa bellissima immagine della filosofa portatrice di acqua mi fa tornare alla mente il mito delle ninfe e della loro funzione di nutrici divine dell’immaginazione. Era questo il compito quasi ninfale che Weil si proponeva con il suo progetto di arricchire gli animi e la spiritualità degli operai alienati e sfruttati nel lavoro a cottimo delle fabbriche. Soltanto a uno sguardo pieno di pregiudizi su cosa sia la letteratura e l’immaginazione tale idea può apparire utopica, mentre invece quello di Weil fu un progetto concreto e reale, tanto più che proveniva da una donna colta che in quegli anni sperimentava in prima persona il lavoro in fabbrica.

Si deve a Francesca Romana Recchia Luciani il grande merito di aver raccolto in questo volume (Simone Weil, Filosofia della resistenza. Antigone, Elettra e Filottete, il Melangolo, Genova) tre testi significativi di questo recupero di Weil del teatro sofocleo per coltivare la sensibilità operaia. Solo il primo di questi, il testo su Antigone, fu di fatto pubblicato nel 1936, mentre quello su Elettra fu rifiutato per dissidi politici con l’editore della stessa rivista “Entre Nous”, che non aveva apprezzato l’entusiasmo con cui Weil aveva visto gli scioperi e le conquiste degli operai nel 1936. Quello su Filottete, invece, rimane purtroppo solo un breve abbozzo dello stesso progetto. 

La lunga e articolata introduzione al volume di Recchia Luciani, ricca di riferimenti bibliografici, è molto utile per cogliere il significato storico e filosofico di questi tre frammenti. La studiosa spiega con chiarezza il rapporto fra le idee weiliane sulla condizione operaia e il contesto del marxismo, del sindacalismo rivoluzionario, delle idee anarco-libertarie, riconoscendo alla filosofa una posizione di assoluta originalità. Come recitano i versi di Ingeborg Bachmann a lei dedicati e posti in epigrafe dalla curatrice: «Il suo partito era quello dei poveri, / dei deboli, e degli oppressi, / e a questo partito senza nome / aderì a modo suo».  

Come sottolineato dalla curatrice, che riporta un passo weiliano tratto dal suo Diario di fabbrica, la filosofa aveva conosciuto con il suo corpo gli effetti del lavoro in fabbrica: «Un’oppressione evidentemente inesorabile ed invincibile non genera come reazione immediata la rivolta, bensì la sottomissione». Per tale ragione, la scelta di descrivere l’eroina tragica Antigone nasce dalla consapevolezza che ella incarni quello spirito di resistenza, che attraversa la stessa Weil, e che lei vorrebbe trasferire agli oppressi dalla schiavitù del lavoro. 

La filosofa si fa quindi tramite di una sapienza profonda e antica: commenta il testo tragico in maniera semplice, lo rende leggibile e cerca di interpretarlo per nutrire l’animo di chi legge. Antigone, la seppellita viva, colei che ha osato sfidare da sola le leggi della città, con cuore amorevole e con coraggio eroico, subisce l’effetto della forza che reifica. Tuttavia, il suo messaggio d’amore è destinato tragicamente a gettare sventura sul re Creonte che con parole altezzose e superbe l’aveva condannata a morte. Anche Elettra incarna un paradigma di sventura e di umiliazione eppure lei non smette di resistere e di sperare. La donna costretta a convivere con l’assassino di suo padre, e che attende fiduciosa che suo fratello venga a salvarla, rappresenta per Weil un sentimento comune a molti: essere soli nella propria sventura, ma essere finalmente un giorno consolati dalla simpatia umana. Quello di Filottete è invece il dramma dell’abbandono, per subire il quale, come Weil scrive, non c’è bisogno di essere lasciati su un’isola deserta: tanti esseri umani oggi muoiono di miseria e di umiliazione anche nel mezzo di una grande città. 

Come scrive Recchia Luciani, non vi è mai nei semplici riassunti del testo tragico fatti da Weil l’intento del proselitismo o dell’induzione a una conversione, ma tale valorizzazione del significato spirituale di quell’antica sapienza è posto a fondamento di una idea di istruzione che serva ad alimentare la resistenza all’oppressione, via necessaria per ogni forma di liberazione. Le due eroine disubbidienti risvegliano ieri come oggi nelle vittime della schiavitù la consapevolezza della propria dignità, la necessità di un pensiero individuale così come della libertà nelle scelte. 

Questo prezioso volumetto ha così il merito di rendere fruibile a un pubblico più ampio vari aspetti della riflessione di Weil: ribadisce la grandezza della filosofa come interprete della letteratura antica, una sapienza intesa come viva e vivificante; valorizza l’importanza del suo progetto culturale e politico, nel quale rientrava l’idea che solo con l’istruzione spirituale sarebbe stato possibile un processo di emancipazione della classe operaia. Infine ispira l’idea che ancora oggi lo studio e l’istruzione, a qualsiasi  livello, non debbano mai perdere di vista questa priorità: far esercitare il pensiero, l’attenzione e la riflessione per diventare quello che si è, e non certo alimentare specialismi autoreferenziali o promesse di prestigio sociale ed economico. Resta quindi più che mai concreto il suo insegnamento: «L’azione su sé stessi, l’azione sugli altri consiste nel trasformare i significati».

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