Daniela Matronola
A proposito de “Il cielo è dei violenti”

Fiamme e fantasmi

Con una nuova traduzione, torna Flannery O’Connor con la sua America solcata dalla violenza, dai pregiudizi e dalle aspirazioni mancate. Un romanzo stranamente attuale che ci racconta una società che abbandona i bambini al proprio destino

Chi si prende cura dei bambini? Chi li tutela davvero senza ingannarli? Chi sa rinunciare alla forte tentazione di mettersi in tutto al loro posto? Chi sa stare un passo indietro senza pilotarli? Chi può resistere alla tentazione perversa di violarli?

Sono tornata a pensarci guardando un episodio delle serie L’ispettore Gently, con Martin Shaw. Una storia atroce sotto il filo della facciata decente in cui un orco l’ha sfangata per le pretese incrociate di chi ha negato l’evidenza e di chi ha optato per un tacito favoreggiamento. Un pugno di orfani violati a cui qualcuno ha anche inculcato l’idea che se avessero parlato non sarebbero stati creduti, come gli ebrei vittime dell’Olocausto quasi negli stessi anni (il caso parte nel 1964 con la morte violenta di un anziano che non vuole cedere la proprietà ma i fatti salienti sono accaduti vent’anni prima, quando la compratrice aveva dieci anni).

Il destino di un immaturo, anzi due, è tra i temi che ci assalgono nella lettura di Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor (minimumfax 2020, traduzione di Gaja Cenciarelli, pagg. 231, 15€), suo secondo e ultimo romanzo, dopo La saggezza nel sangue (Wise Blood). Con la serie televisiva siamo nell’Inghilterra del secondo dopoguerra; con Flannery O’Connor siamo nel Sud degli Stati Uniti: la O’Connor, cattolica di origine irlandese, di Savannah, Georgia (la stessa di Georgia on my mind di Ray Charles), abitava nel villaggio di Milledgeville, nell’Andalusia Farm.

È il Sud rurale e razzista cantato anche da William Faulkner a cui la O’Connor è spesso accostata. Un Sud abitato dai protestanti con vocazione di evangelisti che, in molti casi, abbandonato il cavallo e il calesse o la diligenza, si muovono a bordo di auto dalle carenature importanti e, come compagnie di giro costituite spesso da guitti solitari, vanno nelle piazze, o presso le comunità, a tentare di convertire ed evangelizzare. La O’Connor ancorché divorata già, all’epoca del lavoro su questo romanzo, dal lupus eritematosus ereditato da suo padre, che ne era morto relativamente giovane, si sentiva violata forse da questi piazzisti della fede, di sicuro si vedeva accerchiata. E anche l’America, gli Stati Uniti, democrazia relativamente giovane, era dopotutto ancora ai tempi della O’Connor un vasto Paese in cui le più remote province erano lande di conquista e saccheggio in molti sensi.

Cosa richiede davvero la volontà di sottrarsi alla violenza ambigua che dice di volere il tuo bene?

Uno straccio residuo di purezza di cuore, piuttosto incerta e malferma, e uno scetticismo prudente, ugualmente non integro. Perlomeno ciò è tutto quello che riesce a opporre Tarwater, il giovane Francis Marion – chiamato sempre per cognome, certo, a volte vezzeggiato col nomignolo Frankie, ma al secolo Francis Marion appunto, un nome che è maschile e femminile a pari merito.

Proprio come ne La saggezza nel sangue, il giovane profeta Hazel Motes esibisce un nome proprio maschile e femminile. E come ne La saggezza nel sangue, anche qui, ne Il cielo è dei violenti, c’è un abito nuovo “che fa il profeta” (invece del monaco). Tarwater è bagnato fino all’osso, così è costretto a indossare i vestiti che lo zio maestro, Rayber, gli ha acquistato; Hazel Motes si avvia al suo ruolo di predicatore e inesorabilmente verso il proprio destino, indossando un bell’abito nuovo, color carta da zucchero, e sale sul treno dove appunto incontrerà la propria sorte senza accorgersi che dall’abito pende ancora il cartellino con la marca e il prezzo. E poi prende cappello, non per, come usa dire, abbandonarsi all’ira, ma per darsi l’aria solenne di un uomo. C’è un grandioso scambio in Il cielo è dei violenti, tra Tarwater e Rayber, in cui il primo dice, Qui ho perso il cappello – una frase da prendere molto meno alla lettera di quanto vorremmo. Vuole anche dire, È qui che ho perso la mia autorevolezza, la mia integrità di persona capace di ottenere rispetto.

Bè, via: usciamo dal mistero, e concediamo ai lettori di capirci qualcosa, di orientarsi minimamente.

Francis Marion Tarwater è un ragazzo di 14 anni. Fino ai 4 anni è stato sotto lo stesso tetto di Rayber, il maestro, fratello di sua madre. Poi viene rapito dal prozio, il vecchio Tarwater, profeta, il quale ha immaginato per lui un destino da profeta. Ragion per cui lo strappa alla casa di città, una cittadina, e lo porta a Powderhead (testa di polvere), una radura alla fine di un bosco su cui sorge una casa molto malmessa. Quel toponimo introduce subito un elemento di arsura: al deserto di roccia eliotiana sostituisce il deserto di polvere – in entrambi i casi manca l’acqua. Eppure il primo compito che a Frankie viene affidato dal prozio, a dimostrazione che in lui si stia compiendo il destino di profeta per il quale sembrerebbe venuto al mondo, oltre che per raccogliere e proseguire la sua eredità, è di battezzare Bishop, il bambino disabile, figlio di Rayber, il maestro di scuola, e di Bernice Bishop. Dunque Tarwater junior prende a vedere in ogni fosso pozzanghera o fontana un fonte battesimale, e poi si risolverà per il lago. Ma c’è bisogno d’acqua, carenza d’acqua: sete e arsura a cui si accompagna una specie di fame impossibile da soddisfare, causa il disgusto, il rifiuto del cibo, un’anoressia di segno spirituale, che affligge il nostro. L’arsura, il fumo, la polvere anzi la cenere, che danno l’arsura, l’aridità –letterale e simbolica– al paesaggio del romanzo e al tono che lo domina, sono il risultato di un incendio, anche. Tarwater doveva seppellire il prozio e scavare una fossa abbastanza profonda ma sopraffatto dallo sforzo, in cui non è sostenuto nemmeno dal saggio Buford, lavorante nero, ha preso una scorciatoia: ha bruciato la casa col corpo del prozio dentro. Ha disobbedito al prozio. Ottimo! Un segno di irriducibilità che fa ben sperare, benché inasprisca i rapporti del giovane Tarwater con tutti. Eccole le fiamme. Fiamme purificatrici? Verrebbe da dire di sì. In realtà fiamme distruttrici che in più inaridiscono tutto, rendono tutto un grande glabro disordinato deserto.

Il giovane Tarwater ha disobbedito al prozio che lo voleva profeta e proprio tumulatore.

Disobbedisce di continuo allo zio materno, Rayber, maestro di scuola, padre tenero e infelice di Bishop. Rayber vorrebbe portarlo a scuola (in 14 anni che è al mondo, Tarwater è stato solo educato in casa dal prozio, lontano da tutto e da tutti), vorrebbe rivestirlo, distoglierlo dal proposito ostinato di battezzare il piccolo Bishop – anche perché il bambino è già nella grazia di Dio, è lì a dimostrare che il battesimo è inutile, è anzi un atto arrogante, una violenza a cui si costringerebbe l’unico vero puro di cuore di tutta la banda.

Francis Marion Tarwater è un invasato con delle riserve, e dentro di sé, come corrispettivo della sua sana e generazionale diffidenza verso il mondo adulto, non può soffocare una voce, uno sconosciuto che lo abita e con cui discute in modo intermittente intorno ai cruciali casi propri. C’è un individuo dotato di voce serpeggiante che alberga nel suo animo e alimenta i suoi dubbi, impedendogli di capire di chi potrebbe mai fidarsi, e ci sono vari sconosciuti che in momenti diversi lo accalappiano – un rappresentante di combustibili, un camionista che lo carica perché spera che il ragazzo parli e lo tenga sveglio mentre guida di sera, quasi notte, e un uomo gentile che gli offre una fiaschetta con un liquore, lo narcotizza e gli fa la festa. Guizzano dettagli relativi anche qui agli abiti ai cappelli e agli occhi: sguardi da pesce, occhi in cui qualcosa di spento o di perverso getta luce cieca su Tarwater. 

L’unico a riportare a casa Tarwater è il violentatore che del resto lo riporta a un deserto desolato, la radura dove ora fuma ancora la casa dopo l’incendio col corpo del prozio dentro. Questo ritorno al nulla, che è tutto ciò che Tarwater realmente ha, è una tragica conferma dell’univocità della sua sorte e la smentita di tutte le sue astratte ribellioni, e fa il paio con la bambina predicatrice, la figlia dei Carmody, che una sera arringa un’intera comunità di credenti, increduli e incerti, evidentemente.

Dunque questo romanzo è anche un racconto di fantasmi. Tutto ha sfumature sinistre e conduce al cosiddetto “gotico meridionale” a cui questo libro di Flannery O’Connor può ascriversi. Ma è anche un dramma di moralità in senso storico. Senza avere i caratteri tecnici di un dramma e senza perdersi in moralismi. Ma mettendo in campo un everyman con dei caratteri molto specifici: un adolescente. Un’anima ancora pura, di sicuro sprovveduta, ma già orientata all’ammaestramento.

E coloro che se lo contendono sono contendenti aperti e contendenti subdoli: Rayber e Tarwater senior, entrambi violenti nel lavoro di forgiatura del giovane Francis Marion, divisi tra razionalismo e profetismo; e poi la voce interiore e i tre uomini che in modi diversi lo ghermiscono e paiono agire  diabolicamente.

Per finire vorrei indicare ancora qualche dettaglio e significato.

Come per La saggezza nel sangue, anche Il cielo è dei violenti è un romanzo cupo (più cupo) in cui guizzano momenti di comicità: penso a quando Tarwater guarda con sospetto un cespuglio che non prende fuoco e non gli parla (come gli spetterebbe, essendo destianto a diventare un “collega” di Mosè), e al parossismo di Tarwater per ogni forma d’acqua col pallino di “Battezzare Bishop”. Ricordo che quando lessi La saggezza nel sangue mi colpì molto la breve nota dell’autrice che subito definiva il libro un romanzo comico (specialmente la parte finale è semplicemente disperata). Però è vero, anche qui ci sono molti momenti in cui seppur con un senso di cupezza incombente si ride. Come quando il prozio sul portico di casa fa le prove della bara che si è fatto costruire: ci si sistema e vede inesorabilmente “avanzare” l’addome globoso, fuori misura. Del resto questa comicità cruda, brusca, è la stessa che pervade i numerosi racconti di cui Flannery O’Connor è autrice: su tutti, La schiena di Parker, in cui un pover’uomo che vuole ottenere a tutti i costi l’approvazione della propria burbera moglie si fa tatuare dolorosamente la schiena con l’immagine della Madonna e poi la moglie come sempre seccata lo randellerà proprio sulla schiena cioè sul tatuaggio fresco. Ecco la O’Connor, maestra in tutto, lo è soprattutto nella tradizione del racconto, inaugurata da Egar Allan Poe e da Sherwood Anderson e molto corroborata anche da Edgar Lee Masters e da Henry James, maestro a sua volta proprio nei racconti di fantasmi (tra i quali spicca Giro di vite), un genere che, come dicevo, questo romanzo della O’Connor sembra lambire. 

E comica dopotutto è anche la circostanza per cui il vecchio profeta muore di colpo una mattina seduto al tavolo della colazione. E là resta. Un profeta in cattedra stecchito davanti al caffellatte.

Questo ci fa ritornare all’inizio del cammino, a Powderhead che è una radura desolata, dalla natura livida e quasi cattiva, che anche Rayber, il maestro di scuola, a un certo punto ha contemplato, quasi spiato, da un albero dal tronco biforcuto: curiosa inquadratura in corrispondenza con certi sguardi storti disseminati per tutto il romanzo. A diretta dimostrazione di ciò che si diceva all’inizio e che ha molto a che fare col dispotismo degli adulti o di chi è avvertito nei riguardi dei bambini, o immaturi.

Cos’è che i violenti portano via? Forse l’anima, forse l’interiorità, forse il vero paradiso, o la vera fede. Il cielo è di chi prepotentemente se lo prende. Di chi compie la violenza più grande, spargere quel ‘rot’, quelle porcherie, con cui certi adulti abbindolano bambini e immaturi, violando l’integrità del loro cielo. Un gesto spregevole che in controluce, cioè oltre il senso letterale, come sempre nella O’Connor, rimanda a un significato plastico, metafisico, alluso con linguaggio dimostrativo, biblico: austero preciso ironico tagliente.

L’editore minimum fax riporterà in libreria anche La saggezza nel sangue, di nuovo nella traduzione di Gaja Cenciarelli.

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