Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Eroi dei misteri

Grazia Pulvirenti racconta l'arte e gli amori di Amedeo Modigliani, Georges Simenon si perde nei misteri di una villa in Costa Azzurra, Giovanni Nucci ricostruisce la vita e il mito di Achille

Modigliani. Un amore folle con un finale tragico. Modigliani, livornese (1884, trasferitosi a Parigi nel 1929), era noto per i suoi eccessi. Non aveva un buon carattere. I parigini giocavano col suo nome chiamandolo Maudì (maledetto, in francese). Lo pagavano pochissimo, quando lo pagavano, e, appena saputo della sua morte – era tubercolotico, si drogava e in più beveva moltissimo – frotte di persone s’avventarono come corvi sulle opere che riuscivano a trovare, compresi bozzetti che lui faceva nelle osterie per guadagnarsi almeno un pranzo. «L’italiano che sognava di essere Dio», così alcuni lo apostrofavano, morì in un androne, tra spasmi e vomito. Era lontano dalla sua ultima amatissima amante (ne ebbe molte; era un bell’uomo ed emanava fascino), Jeanne Hèbuterne, anche lei pittrice. E Jeanne, come riferisce una sua amica, lo rincorse per tutta la vita, facendogli anche da modella. Questa straziante relazione (lui era un donnaiolo, con le donne ci sapeva fare; era il Casanova di Montparnasse) viene raccontata Da Grazia Pulvirenti, in Non dipingerai i miei occhi (edito da Jouvence, 144 pg., 12 euro). Gli elementi interpretativi non ne fanno un’opera biografica.

Prevalgono i sogni, l’ambiente, i caratteri, la città corrosa dalla fame, dal vizio, dall’allegria, delle smisurate ambizioni., della paura degli Zeppeling tedeschi (il fronte teutonico arrivò a 150 chilometri dalla capitale francese. Il titolo del libro della Pulvirenti, deriva dal fatto che Jeanne rimproverava Amedeo, di cui era «strafatta d’amore», di dipingere i suoi occhi azzurri («uno strappo di cielo nel vuoto»), a fessura, ma non quel che stava dietro gli occhi, ossia l’anima. Maudì. Il pittore toscano alternava modi bruschi, o assenze, a profonde intimità. Era capace di ritrarre la sua donna: finito il ritratto lo posava su una sedia e usciva dall’atelier.

In Provenza ebbero una figlia. Non si sposarono mai anche se l’intenzione di matrimonio fu scritta su un foglio, con tanto di testimoni. Dedo (così era chiamato in famiglia) promise più volte di portare Jeanne in Italia per presentarla a sua madre. Non accadde mai. Jeanne disegnava e Maudì la elogiava, lei non credendo alle sue parole. Jeanne aveva spesso uno sguardo cupo incastonato in un arruffio di capelli rossi. Scrive l’autrice, poco importa se non legge un testo biografico: «No, non dipingerai mai i miei occhi: l’anima affiora, a volte, ma mai nella luce, solo nella notte di corpi disfatti, nell’incontro disperato delle dita che si sfiorano, di lontananze che si cercano, di vuoti che s’illudono di colmarsi a vicenda». Modigliani muore come uno straccio abbandonato da tutti. A Jeanne sembra di impazzire. Nella casa dei genitori, incinta per la seconda volta, si siede sopra i ciclamini della balaustra e si lascia andare nel vuoto. Entrambi riposano nel cimitero di Père Lachaise.

La villa. Ricorrenti, negli scritti di Georges Simenon, non sono soltanto la pioggia, le strade livide e buie. Il prolifico scrittore franco-belga è attratto dalle chiuse, dai barconi, dalle brasserie e di quella che chiamava “petite gens”. Nell’ultima raccolta di racconti, Annette e la signora bionda, edita da Adelphi (176 pg., 12 euro), tra la piccola gente – che spesso si arrabatta tra difficoltà e bugie – c’è un uomo scontroso (il racconto s’intitola «Il delitto dello scorbutico»), tale Pierre Chincholle, che nel retro della sua modesta agenzia immobiliare, sta quasi sempre con la moglie malata. Hanno un figlio, ma è in ospedale. Pierre si veste di scuro, in contrasto con la costa Azzurra, dove abita e lavora. Un giorno arriva un’auto lussuosa, con a bordo due olandesi con la pelle rosa. Pierre li porta a visitare una grande villa, con sette camere, tre bagni, grande terrazza e impianto termico centralizzato: c’è sporcizia, ma non è questo il problema. Tutto si può risolvere, dicono gli olandesi, rapiti dal panorama nizzardo e dal mare solcato da yacht e, ovviamente, dal clima permanentemente primaverile o estivo. Durante la visita Pierre, per fortuna a debita distanza dai futuri affittuari, apre un vano-dispensa e viene investito da un odore putrescente: dà un’occhiata a riconosce la barba del precedente inquilino. L’accordo con gli olandesi, determinati ad ammirare le finestre che s’affacciano su un panorama mozzafiato, rischia di saltare. No, non salterà. Pierre saprà come fare a sotterrare l’uomo, l’inquilino precedente.

L’eroe. Mille navi si schierarono davanti alla radura dove la grande città di Troia dominava sull’intera regione. Il casus belli era stato il rapimento della greca Elena da parte di Paride, che con Ettore erano figli di Priamo. Il maggiore si chiamava Ettore e fu ucciso, barbaramente, da Achille. L’assedio della città durò circa dieci anni, e determinò la sua caduta assieme al trionfo di Achille che le divinità avevano concepito come l’eroe per antonomasia, malgrado il destino che lo vide morire a causa della freccia di Paride là dove non era vulnerabile, ossia il tallone. Non molti però sanno dell’infanzia e dell’adolescenza di Achille. Zeus (Giove, secondo i romani) s’innamorò di Nemesis – la giustizia, l’equidistanza ma anche la vendetta – volle  alla fine far celebrare il matrimonio tra Teti e Peleo (di qui il patronimico di Pelide per il loro figlio). Nemesis, per sfuggirgli si trasformò in un uovo e poi in un’oca e, insieme, in tutti gli animali. Ultima trasmutazione: il cigno. Il padrone dell’universo si innamorò poi di Teti, figlia di Oceano e nereide del mare. Ne nacque Achille, come ci racconta Giovanni Nucci, studioso dei miti, in Achille, il midollo del leone (infatti di questo si cibò, ndr), Salani editore, 146 pg., 12,90 euro. L’eroe, freddo, silenzioso e capace di rimanere in disparte, fu affidato al centauro (mezzo uomo e mezzo cavallo) Chirone, che gli fece da padre visto che Teti, trasformatasi in acqua non poté stare accanto al figlio. Quasi impazzì quando seppe che la sua creatura sarebbe dovuta andare incontro alla morte. Peleo, il padre, non sapeva come allevare Achille. Ed ecco che subentrò Chirone, mentre il padre naturale, Peleo, tornò nella sua città, Ftia. Achille addestrò il “figliastro“ nei boschi. Quando era ancora giovinetto, si adoperò ad afferrare la freccia lanciata da Chirone. Fallì molte volte, ma conobbe la forza della velocità. Gli insegnò anche il silenzio e la capacità di non essere disturbato dal rumore della battaglia. E poi la leggerezza: Achille la imparò correndo il più velocemente possibile lungo un fiume ghiacciato senza rompere la sottile crosta. Altre cose che l’eroe più famoso del mondo imparò: suonare il flauto e la cetra («La musica» gli spiegò il centauro «è il punto più vicino agli dei a cui l’uomo può arrivare»). Achille, per una serie di circostanze, conobbe anche l’amore carnale, ma soprattutto l’amicizia, incarnata in Patroclo, ucciso prima dell’incendio e la fine di Troia. Dalle rovine fuggì Enea, che sbarcò in Italia, facendosi indirettamente fondatore di Roma.

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