Flavio Fusi
Cronache infedeli

Diego, Evita e il Che

Nel corpo dei miti c'è il senso della loro funzione sociale. Gonfio quello di Maradona, Scarnificato quello di Evita, santificato quello di Che Guevara. Queste tre icone hanno in comune la vocazione dell'eroe

Notte del 18 aprile 2004: mi sveglia un rumore di fondo, come un ronzio che percorre la città addormentata, e urla isolate, richiami, lamento di sirene, un coro di clacson. Sotto il mio balcone sale l’eco di uno scalpiccio insistente, e alla luce fioca dei lampioni si rivela una folla sparsa  che si affretta lungo Calle Quintana, diretta tutta verso la stessa direzione.  Che succede, nel buio di Buenos Aires? Succede, e tutti i notiziari del giorno dopo lo avranno in prima pagina, che Diego Armando Maradona ha avuto un improvviso malore, ed è ricoverato in gravi condizioni alla clinica Suizo-argentina.  

Mentre il Pibe de oro giace intubato in una sala di terapia intensiva e i medici si riservano la prognosi, davanti all’ospedale – uno dei più lussuosi del paese – vegliano migliaia e migliaia di persone. La notizia percorre i quartieri e la folla si fa di ora in ora più numerosa, il traffico si blocca, l’intera città trattiene il respiro intorno a quel rumoroso presidio, tra calle Arenales e Las Heras.  

Maradona è ancora giovane, ma a 44 anni la vita lo ha consumato e reso irriconoscibile. Per l’ex campione sarà questa la prima volta di un lungo calvario fatto di medici e ospedali, sonni e risvegli, sedazioni, scintille di vita e profonde prostrazioni. Il suo corpo è già stanco, gonfio, dissipato. Ma proprio questo reclama la folla che trascorre la notte all’agghiaccio, accalcata lungo le transenne: il corpo mistico, vivo e per sempre giovane dell’ eroe immortale.  

Il corpo, dunque, e il popolo. Il binomio affascinante e funereo è un topos della storia argentina. Anche se la distanza è siderale negli anni e nelle situazioni, la morte del Pibe de oro richiama quella di Eva Duarte – Evita Peron.  Come il corpo fisico di Diego è enfiato, idropico, aggravato e pesante, così il corpo di Evita nei mesi e nei giorni che precedono la morte è scarnificato, svuotato e ridotto a crisalide.

Ma intorno ai due corpi fervono incessanti i lavori in corso per l’edificazione del mito. Dopo ogni caduta che lo avvicina alla morte, il copione detta le sue regole: impone che Maradona si mostri ridente, sprezzante, allegro. Il corpo obbedisce, scherza sul letto dell’ospedale, vola in aereo, gioca a golf con Fidel Castro nella sua amata Cuba, bacia le donne di famiglia, sfida Dio e il destino. «Il barba – dice dopo il ricovero del 2004 non mi ha voluto con sé».

Se la morte di Maradona è un lungo addio, la morte di Evita è un atto unico e fulmineo, nel momento di massima gloria, quando il popolo dei descamisados la invoca come vicepresidente e santa protettrice della nazione. Il cancro la svuota, la massacra e la rende cadavere in pochi mesi, dal maggio al luglio del 1952.

La sua ultima apparizione pubblica è datata 4 giugno, a fianco di Juan Domingo Peron, nella parata che celebra la vittoria elettorale del presidente. Evita pesa ormai solo 37 chili, è imbottita di psicofarmaci contro il dolore lancinante, imbellettata di creme a nascondere il pallore cadaverico del volto. In piedi sull’auto presidenziale – a ricevere l’omaggio festante e disperato della sua folla – la primera dama è sostenuta da una impalcatura di metallo nascosta sotto i vestiti. Così dice addio la Ballerina, la Cavalla, la puledra, la Serpe, la Cucaracha, la Milonguita, la puttana, la cameriera, la pazza, la iena, la benefattrice degli umili, la Chinita, la Dama di speranza, la Mammina dei poveri.

Ma quelli, diremo, erano tempi feroci. Mentre il corpo di Evita si dissolve in tragedia, quello di Diego Armando Maradona si è dissolto in commedia. Il vecchio ragazzo di Villa Fiorito è più Peron che Evita. Come Peron fu ammiratore di Benito Mussolini e nello stesso tempo animatore della revancha dei miseri, dei descamisados metropolitani, di un proletariato lumpen asservito alle gerarchie sindacali, così Maradona fu in patria amico di Menem e poi intimo del clan Kirchner, a Napoli commensale della camorra, a Cuba e in Venezuela compagno di giochi e di riti con Fidel e Hugo Chavez. 

L’assoluzione del mito è completa, senza riserve. E si applica anche al caso Maradona la riflessione di Tomàs Eloy Martinez, autore di Santa Evita, una straordinaria biografia romanzata di Eva Peron: «Pensai, seguendo Walter Benjamin, che quando un personaggio storico è stato redento, si può citare tutto il suo passato: tanto l’apoteosi, quanto il segreto».

Di più: il chiacchiericcio di certa sinistra latinoamericana immagina Maradona campione dei poveri e dei derelitti, e cala sul tavolo della storia una falsa carta che confonde le fattezze del Pibe e del Che.  L’accostamento è azzardato ma in certo senso coerente. Anche Ernesto Guevara è un “corpo mistico” argentino. La sua giovane morte lo colloca nel pantheon degli eroi e il suo corpo steso sul tavolaccio nelle campagne dissipate di La Higuera ha le fattezze di un Cristo laico deposto dalla croce.

Bisogna dunque non sopravvivere alla propria gioventù.  Non sarebbe uno scandalo se nei libri di storia, il capitolo “Peronismo” venisse scalzato dal capitolo “Duartismo”. In vita, Juan Domingo Peron è stato in qualche modo geloso di quel suo doppio femminile e giovanile che le masse adorano meglio e più di lui. Il generalissimo sconta il torto di invecchiare, al potere e poi in esilio, trasformato in un corpo ordinario ben prima di dissolversi in cadavere.

Fallisce anche l’ultima carta della vecchiaia, quando Peron tenta di “replicare” Evita, sposando e innalzando alla vice-presidenza una  giovane ex ballerina e cantante. Ma Isabelita è solo una donnetta senza carisma e senza tragedia, che finirà presto sprofondata nel gorgo della vera tragedia argentina. La parabola della terza signora Peron mostra che non basta avere un corpo, per essere un corpo.

C’è una storia del dopo-morte, in questa vicenda di corpi mistici e carne corruttibile. Il cadavere di Evita, imbalsamato e poi replicato in copie di cera, trafugato, sepolto e dissacrato mille volte. Il corpo del Che con le mani mozzate, le ossa poi rastrellate dalla fossa senza nome, infine il funerale da eroe con le fanfare e i dignitari raccolti intorno a una microscopica urna di legno. 

Ma quelli erano tempi feroci, appunto.  Al giocoliere degli stadi e della vita è stato risparmiato in morte l’estremo insulto. Maradona riposerà – si spera – in un verde cimitero porteno e i clan contrapposti dei molti eredi non si contenderanno le spoglie mortali ma solo i dollari della cospicua eredità.  E non sapremo mai se la fine dell’eroe sia stata “triste e solitaria” come l’inevitabile indagine legale suggerisce oggi: nella stanza isolata di una grande casa vuota, sequestrato dall’ospedale, segregato e lontano da tutti alla fine del viaggio.  Più fortunata, molto più fortunata la sorte di Eva Peron, che cronache forse infedeli descrivono pacificata ma ancora testardamente orgogliosa nei suoi ultimi istanti a fianco del marito: «Quello che non voglio è che la gente mi dimentichi, Juan. Non permettere che mi dimentichino».

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