Lidia Lombardi
Lo scaffale degli editori

Ada allo specchio

Napoli è la città della giovinezza della protagonista del romanzo di Annella Prisco, uno scavo attorno a donna borghese alla ricerca della sua verità interiore. Ed è il cuore del romanzo-storico di Dora Liguori sul massacro dei 30 mila napoletani che, fedeli al “Re lazzarone”, difesero la città dall’invasione francese del 1799

Napoli e l’armonia festosa del paesaggio campano tutto, Napoli e le sue ombre, in uno scenario che si nutre anche di passato, di scomparse età dell’oro, in senso materiale e metaforico. “Campania felix”, insomma, ma anche Campania ferita. Protagonista di due freschi di stampa, un romanzo storico e un romanzo-romanzo. Il primo vuole fare i conti con la Storia e mettere i punti sulle i di verità passate sotto silenzio. E infatti squarcia il velo sul sangue dei vinti il denso lavoro di Dora Liguori, scrittrice e musicista campana (si è formata presso il glorioso Conservatorio di San Pietro a Majella) che ha dedicato sette anni di ricerche nella Biblioteca di Napoli per ricostruire sui documenti ciò che avvenne all’ombra del Vesuvio nel 1799, l’anno dell’invasione francese e della rivoluzione senza popolo che ebbe come corollario la nascita della “Repubblica Napolitana”. Fatti liquidati sui libri di storia con la fuga del re borbone Ferdinando IV e l’affermazione, insieme con l’esercito giacobino, della dotta borghesia nutrita di ideali massonici e illuministici. Si sorvola però sul sacrificio di 30 mila napoletani armati soltanto di “piroccole” – bastoni di legno – che strenuamente difesero la città dai conquistatori, fedeli nonostante tutto al re, ma specialmente alla propria identità. 

Carulì, si m’amave– così il titolo del libro (Bolis Edizioni, 526 pagine, 19,80 euro) – è anche un omaggio a quella che fino ad allora era una splendida capitale europea, gaia e avanzata nelle infrastrutture, carismatica per la sua corte e insieme vivida per gli abitanti. Liguori – che introduce il racconto con un compendio della storia di Napoli e della sua lingua – segue passo passo la corsa verso il baratro. Ovvero i tre giorni di battaglia dei lazzari – i popolani fedeli al “re lazzarone” il quale di malavoglia se ne partì per Palermo sulla nave Vanguardmessa a disposizione dall’ambasciatore inglese Hamilton – asserragliati nei quartieri, nei vicoli, sui ponti, da via Toledo all’ormai scomparso ponte della Maddalena. Fu qui che avvenne la carneficina di pescatori e ortolani, conciapelle, cavatori di tufo, scaricatori di porto, l’improvvisato “esercito” sostituitosi alle traditrici truppe reali. Nel quale si intrufolarono anche di settemila bambini, gli scugnizzielli o “muschilli” che con il loro corpo decisero di far scudo ai padri e ai fratelli, suscitando una pur passeggera compassione nell’armata francese, forte di 22 mila uomini, comunque spronati a scaricare le baionette nonostante non avessero un preciso mandato da Parigi.

Liguori – sulla scorta delle cronache del tempo – fotografa i tre giorni dei lazzari con precisione tale che il palpito segue spontaneo. Ma il climax, e la successiva livida creazione a tavolino della Repubblica Napolitana retta dai cosiddetti Eletti – tra cui spicca il giurista Mario Pagano ma di fatto controllata dal generale d’oltralpe Championnet – è preceduta dall’intreccio di affetti, amicizie, amori di una gamma variegata di personaggi. Che tutti – l’ironia è l’altra cifra della narrazione – ruotano attorno al pappagallo Coco, portato dal Venezuela a opera del dotto botanico Ramon Ortega e dono di Carlo III, re di Spagna, alla nipote, principessina Maja. Ecco allora in scena il re Ferdinando IV e la regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena (la “Carulì” del titolo in una canzone che il popolino cantava con amarezza sotto le finestre della Reggia), Eleonora de Fonseca Pimentel, dama di corte e poi “repubblicana”, ma anche il maggiordomo Sesè, la moglie Concetta che vive in un basso, la loro bambina Piccerenella, che approda a Palazzo Reale per accudire il pappagallo parlante e sarà istruita da donna Eleonora. Il popolo verace si mischia così ai blasonati, il dialetto irrompe vivido, la ricchezza della corte tracima in rivoli nella città. 

Quando invece la rivoluzione senza popolo sarà compiuta, Napoli si troverà priva del tesoro reale, salpato con il sovrano alla volta di Palermo, e perfino di un po’ di San Gennaro, che i francesi cercano di “addomesticare” nel giorno del miracolo (“Gennà, faccia gialluta, se’ addeventato giacobbo pure tu”, lo rimproverano i lazzari). Ma soprattutto perderà anche quella che l’autrice definisce “l’età dell’innocenza”: perché l’invasione è stata piuttosto una guerra civile tra la povera gente e un manipolo di colti borghesi e di aristocratici che non esitarono a sparare da Sant’Elmo contro i concittadini. È l’esito di un periodo avvelenato da delazioni e tradimenti, non ultimo quello perpetrato da Orazio Nelson contro il cardinale Fabrizio Ruffo, altro tassello dell’analisi revisionista del libro: fu lui a riconquistare il regno di Napoli con un esercito eterogeneo partito dalla Calabria, ma la promessa fatta dagli inglesi di non spargere altro sangue giustiziando i capi già dimidiati della Repubblica venne disattesa e così il porporato risulta dipinto a tinte solo fosche dalla storiografia ufficiale.

Dal passato al presente in un romanzo edito dal campanissimo Guida. L’autrice è Annella Prisco, e subito compare in controluce la figura di un grande narratore, due volte premio Strega: Michele Prisco, nato giusto cent’anni fa a Torre Annunziata. Annella, sua figlia, è giornalista, scrittrice, animatrice culturale. E percorre una strada tutta sua nei sentieri della narrativa, libera dagli echi paterni, se non fosse per la sincerità della scrittura.Specchio a tre ante(176 pagine, 14 euro) è infatti un’opera molto femminile, il che non vuol dire affatto che si debba collocare nella letteratura rosa. È invece uno scavo attorno a una donna borghese che conduce fino a un certo punto una vita qualunque – madre affettuosa, moglie rassegnata a un ménage opaco dopo un matrimonio da colpo di fulmine insufficiente a cementare la coppia – e che quasi all’improvviso decide di rivoltarla, questa vita, pronta a pagare il prezzo della rottura del conformismo esistenziale. Quel che più intriga – il nocciolo del plot – è il dualismo della protagonista. A cominciare dal nome, Ada, «raro nome palindromo – scrive Annella Prisco nella bella pagina rivelatrice – che racchiude il significato di una vita doppia, che si legge e si vive in un percorso di andata e ritorno». 

La metafora del dualismo si corrobora a partire appunto da quello specchio a tre ante nel quale la donna insoddisfatta in cerca di sé scorge i suoi profili, e non è detto che il riflesso frontale del volto sia sintesi di due anime. Ada trova il bandolo, il mistero del proprio Io a cinquant’anni. E lo trova in Cilento, ad Acciaroli, nella vecchia casa di famiglia sul mare dove non torna da tempo. Arriva per un week end solitario da Roma, la città di residenza dopo il matrimonio. E sul letto alla luce della luna che penetra da un balconcino con la ringhiera curva e i gerani rosso arancio (così la magia degli sfondi) ripercorre le sue età: studentessa universitaria alla Federico II con il progetto di entrare nel mondo della pubblicità e della moda vanificato dal matrimonio e dalla maternità; e di nuovo, quando il figlio va al liceo, pronta a riprendere il filo della propria formazione, perché ormai con Simone, il marito abulico e depresso, non c’è più amore. Ecco Firenze e il corso di perfezionamento a Palazzo Pitti; ecco un incontro fatale che vive come riappropriazione di sé. Salvo poi dover chinare la testa di fronte al destino. Annella Prisco disegna situazioni, paesaggi e personaggi con lieve profondità e l’ossimoro indica la piacevolezza della lettura, che potrebbe facilmente trasformarsi in un soggetto cinematografico.

Facebooktwitterlinkedin