Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

L’arte distratta

Malgrado il titolo («Fuori») suggerisca un contatto con la realtà, la Quadriennale di Roma pecca proprio di assenza di rapporti con la vita vera. Una rappresentazione dell’Italia contemporanea da salotto borghese politicamente corretto e attento alle mode

Fuori. Proclama il titolo che battezza la diciassettesima edizione della Quadriennale inaugurata a Roma al Palazzo delle Esposizioni dove resterà in cartellone fino al 17 gennaio. Fuori. Si proietta all’esterno l’istallazione di un’artista esordiente, Norma Jeane, nome d’arte che ambiziosamente scimmiotta quello di Marylin Monroe: una modifica dell’impianto d’illuminazione dell’arcata d’ingresso su via Nazionale che regola i fasci di luce sul battito del suo cuore.

Fuori. Ci guida il prologo di foto in testa al catalogo edito dalla Treccani che riassumono con una manciata di immagini gli eventi dell’ultimo decennio, dal papa che prega da solo in piazza San Pietro, al crollo del Ponte Morandi, dai migranti bloccati sulla Sea Watch, ai selfie tra bagni di folla di Salvini quand’era ministro. Ma è una sorta di compensazione: dentro, tra le opere in mostra non troverete neppure un accenno a quegli spezzoni di cronaca.

Fuori c’è l’assedio del Covid, che dura da oltre un anno e torna ad incalzarci anche qui con i suoi numeri e le sue restrizioni in ascesa: accessi centellinati, non più di cento ogni ora e solo su prenotazione. Ma anche in questo caso, non c’è in sala che una sola opera che ne evoca almeno i fantasmi. L’unico che ci si sia misurato è il presidente della Quadriennale, Umberto Croppi, insediato a macchina ormai in corsa, suo il correttivo di trovare uno sponsor, Gucci, per aprire a tutti l’ingresso senza biglietto, scongiurare la jella e dare un senso all’investimento pubblico, circa 2 milioni di euro.

Insomma no, il fuori, quel fuori sbandierato che noi pubblico viviamo ogni giorno, non entra a far parte in presa diretta dello spettacolo. Come sarebbe doveroso su questo prestigioso palcoscenico del contemporaneo. Inventato negli Anni Trenta per aggiornare il panorama dell’arte italiana di oggi e bilanciare la vetrina internazionale della Biennale di Venezia. E poi fatto rinascere, tra stenti, passi indietro e rinvii, con una promessa di periodicità mai mantenuta.

Un senso di incompiutezza e di distanza dalla realtà domina questa nuova puntata della Quadriennale, come con altri dosaggi dominava le ultime precedenti edizioni. Di chi la colpa? In parte degli artisti oggi in scena, sempre più isolati e prudenti per l’ansia di finire fuori mercato o non entrarci affatto. A volte afasici per eccesso di delega alla critica che si è impadronita della narrazione sulle opere d’arte, condannandole a raccontarsi invece che a dirsi. A volte fin troppo ciarlieri, magari perché spinti da una insidiosa deriva imboccata dagli sconfinamenti performativi dell’arte concettuale: l’ambiguità dell’immagine e della visione rimpiazzata dall’ambiguità della parola.

Siamo davvero sicuri che questi due linguaggi siano intercambiabili, equivalenti? Che lungo questo flusso di smottamenti di pratiche e intenzioni, prestiti e furti, le arti visive non perdano di vista la necessità di inseguire e definire il proprio altrove?

È un dubbio che mi rimanda l’inclusione in mostra di due esperimenti firmati da Giulia Crispiani, 33 anni, nata ad Ancona ma trapiantata a Roma, al Pigneto. Il primo rappresentato da una raccolta di lettere d’innamorati all’addio mai inviate ma pubblicate: i testi sono appesi al muro. Il secondo è l’invito ad una mostra resa impossibile dall’embargo Covid del marzo scorso spedito insieme ad una pizza da consegnare a domicilio: i cartoni con sopra il messaggio sono esposti su un piedistallo a ingresso sala. Belle parole, a volte anche toccanti, ma una simulazione che invade il territorio della poesia, senza rispettarne regole e criteri di giudizio. Ed elude i confini dell’arte visiva, con un abile gioco di prestigio che ricorda i colpi di scena ad effetto sicuro e i capovolgimenti utilitari della pubblicità. Le toglie sangue, senza restituirle profondità.

Già perché, a conti fatti, è per questa confusione di mezzi espressivi, questo navigare alla superficie del così va il mondo, che mi lascio alle spalle l’esperienza di questa mostra, preceduta da tante attese, con un bagaglio di poche vere emozioni. Parlo di emozioni che generano ricordi indelebili, che mettono radici in profondità.

Sì, l’opera di Irma Blank, 86 anni, milanese, quel corridoio di pannelli blu che irradiano vibrazioni quasi mistiche dal segno centrale da cui sono generate. Sì, i capricci ermafroditi scolpiti da Lydia Silvestri, artista scomparsa due anni fa quasi centenaria, dimenticata perché dava scandalo. Sì, quelle moquette di spettri sbiaditi, icone ossessive, immagini sfocate di paesaggi rubati, che il duo Monica Cuoghi e Claudio Corsello, una coppia ormai oltre i sessanta che vive a Bologna, ci stende davanti. Sì, l’immagine choccante di quel parto, la testa del bambino che spunta dalla vagina dilatata, che Lisetta Carmi, maestra genovese ultraottantenne del realismo fotografico, ci sbatte in faccia, senza sconti e senza censure, perché ci piaccia o no è così che si nasce. Sì, gli splendidi bianco e neri con cui un’altra fotografa cinquantenne, Luisa Lambri, reinventa la sfida allo spazio dei tagli di Fontana.

E poi, forse, il disincanto smagato con cui il giovane terzetto di cineasti creativi, Zapruder, ci restituisce una delle imprese d’un Ercole rivisitato e aggredito da altre mitologie: l’eroe con il volto camuffato da una maschera di James Dean, in un’officina popolata da operai con lo stesso camuffamento, sbullona fino a mandarla in fiamme un’utilitaria che cerca invano di spostare un vagone troppo carico. O, perché mi strappa un sorriso di simpatia ed empatia, il gigantesco mazzo di fiori appeso sopra lo scalone del palazzo, con cui una coppia di artisti gay, Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, esprime la gioia del loro matrimonio appena celebrato: l’effetto è già visto, ma la vena è coinvolgente e sincera.

Con la sensibilità di pittore, ringrazio questa Quadriennale per l’attenzione – esempio davvero raro – riservata alla pittura. E al siparietto che rende ampio omaggio a Salvo, scomparso 5 anni fa, un ex maestro dell’arte povera, che si è convertito ai lavori da cavalletto, distillando paesaggi metafisici da una tavolozza di colori elettrici e squillanti. Ma confesso la delusione per altri artisti giovani inclusi nel cast. Enfaticamente barocco il repertorio di forme di Guglielmo Castelli. Banali e viziati da vezzi modaioli i ricami di donnine fatali che Maurizio Verdugno ha ricavato da riviste patinate. Irritanti le ceramiche dipinte da Alessandro Pessoli, over 50 residente a Los Angeles: macchinosi e banali i segni, pletoriche e fastidiose le scritte che le costellano, un turpiloquio qualunquista di insulti ai politici anni 90 dell’era Berlusconi. Il sospetto è che sia stato scelto proprio per questa sua irriverenza da bar contro maschere del Potere e dei Palazzi ormai al tramonto, così datata da non disturbare chi oggi conta, né scatenare reazioni.

Una prudenza stridente, che pesa sul bilancio finale, tra obiettivi raggiunti e mancati, di questa mostra.

Tra i meriti che si debbono riconoscere ai due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, quello di aver riancorato con angolazioni inedite alla Storia il percorso di questa diciassettesima Quadriennale, rivisitando con sguardo critico gli ultimi sessanta anni della rassegna per recuperare personaggi e movimenti scomodi che ne erano stati esclusi.

Lodevole – anche se sa di quote rosa, e a volte incorona solo lavori ammiccanti – il rilievo assegnato alle artiste donne, 19 su una rosa di 43 partecipanti. Giusto e apprezzabile il recupero di voci ed esperienze sul campo del femminismo militante e del movimento gay, come specchi di una fonte d’ispirazione creativa, l’erotismo e il piacere del corpo, importante ma spesso trascurata e rimossa.

Eppure l’impressione è che questo allargamento di visuali abbia pesato fin troppo nel determinare le novità di oggi attraverso la selezione degli esordienti, 29, e dei talenti più giovani, 14 under 35. Scivolando in una rappresentazione dell’Italia contemporanea da salotto borghese politicamente corretto, da sinistra moderata, attento alle mode e alle convenienze ma impaurito dagli aspetti più conflittuali e contraddittori della realtà sociale.

Guai parlare e far parlare di povertà. Di insidiose derive antidemocratiche in agguato. Di una pervasiva rassegnazione che contagia anche il sistema dell’arte alle storture del capitalismo finanziario. E ovviamente della pandemia che scompiglia le carte.

Una rimozione che toglie attualità anche alla giusta rilettura della storia della Quadriennale che scorre parallela alle fortune e ai tragici errori del regime fascista. E impallidisce e trasforma quasi in un diversivo enfatico l’allarme e la denuncia ancora controcorrente, di due siparietti riservati alla disastrosa avventura dell’Impero coloniale. La vergogna dei tagliafuori che al tempo delle leggi razziali condannarono al silenzio o all’esilio artisti ebrei di eccezionale talento.

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