Luca Fortis
Le parole e le identità collettive

La poesia è politica?

Incontro con Roberto Lumuli Gaudioso, poeta e studioso di cultura africana: «L’arte non è un mezzo. Dolci pensieri, belle parole, freddure non sono condizione sufficiente per la poesia. Forse, oggi bisognerebbe far “ridiscendere” la poesia tra noi»

La poesia è un mondo affascinante perché riesce a cogliere, forse rubare, un frammento di tempo, sensazioni, ma può anche racchiudere in pochi versi complesse riflessioni sulla vita. Succedeoggi ne ha parlato con Roberto Lumuli Gaudioso, poeta, traduttore e ricercatore di letterature in lingue africane che ha collaborato con le università di Bayreuth (Germania), Dar es Salaam (Tanzania) e Napoli “L’Orientale”. Le sue ricerche, sul campo condotte ad Ukerewe e Dar es Salaam in Tanzania, Gaborone in Botswana e Lubumbashi nella Repubblica Democratica del Congo, comprendono la poesia moderna e contemporanea (orale e scritta), le lingue e filosofie africane, la traduzione letteraria, l’estetica e l’ermeneutica del testo.  Attualmente come ricercatore si occupa di lingua e letteratura shona e come poeta continua la collaborazione con l’artista Mariangela Levita.

Per anni hai studiato il poeta swahili Euphrase Kezilahabi, perché è uno dei più importanti poeti swahili?

Roberto Lumuli Gaudioso2Perché è il primo nella letteratura swahili che riesce a far diventare la forma senso. Nella poesia di Kezilahabi, ma anche nei suoi romanzi, la forma, la struttura del testo, il ritmo sono oggetto della sua ricerca estetica e espressiva che va dal canto al silenzio, dall’urlo all’onomatopea. È un poeta filosofo, come Leopardi. Riesce con un linguaggio spoglio, spesso ironico, a mettere in gioco temi fondamentali e profondamente attuali per le società africane, ma anche per quelle europee: l’educazione sessuale, le libertà e l’emancipazione, il piacere e la conoscenza, lo stato di diritto, la democrazia e l’informazione; questi sono alcuni dei temi che tratta e che rappresentano sfide attuali per tutti gli Stati.

Sul suo lavoro hai scritto un libro “The voice of the Text and its Body. The Continuous reform of Euphrase Kezilahabi’s poetics” ( Köppe Verlag), me ne parli?

È un libro che anche se scritto in inglese e pubblicato in Germania è perlopiù frutto degli studi che ho iniziato e coltivato grazie all’Università degli Studi “L’Orientale” di Napoli. È un’indagine sulla sua poetica guidata dai testi; so che può sembrare banale, ma oggi molti studiosi accademici e alcuni critici tendono a valutare troppo gli aspetti extratestuali e fanno del testo un pretesto per parlare d’altro, cosa a mio avviso paradossale per la letteratura che è arte verbale, è testo. Ovviamente, ho anche indagato attraverso numerosi lavori sul campo in Tanzania i rapporti intertestuali tra i testi di Kezilahabi e la letteratura orale (swahili e kerewe).

Quali sono le tematiche più importanti trattati nella sua poesia?

Le libertà e l’emancipazione d’ogni tipo sono sempre presenti nelle sue opere, non solo come tema, ma anche come filosofia di fondo e come forma; è il fondamento della sua poetica. Mi riferisco, per esempio, al verso libero o al verso regolare non tradizionale: sono realizzazioni dello stile di Kezilahabi verso la libertà e l’emancipazione culturale, o forse dovrei dire l’emancipazione dal culturalismo, ovvero dalla tendenza a vedere nell’espressione artistica lo spirito di una cultura e quindi, in quella cultura, i limiti dell’esperienza artistica e/o umana. Kezilahabi rifiutava tutto questo. Nel ’69 scrive un romanzo, Rosa Mistika, la storia di un’adolescente che scopre la propria sessualità: questa scoperta diventa per lei distruttiva perché era del tutto a digiuno di un’educazione sessuale. Kezilahabi difende l’emancipazione della donna, si pronuncia per una donna libera e responsabile delle proprie scelte. Purtroppo in Italia non abbiamo idea della ricchezza della letteratura in lingue africane; se qualche editore leggesse e fosse interessato a pubblicare una traduzione in italiano di Rosa Mistika troverebbe probabilmente un sorpreso interesse in molti lettori.

Quest’anno hai anche pubblicato un tuo libro di poesie intitolato “Squittii” (ed. Oèdipus 2020), me ne parli?

Trovo difficile parlare della mia produzione come poeta, non mi piacciono le auto-letture. Posso ragionare insieme ai lettori, accolgo con piacere domande, spunti e critiche, ma sono fermamente convinto che l’autore non conosce meglio dei propri lettori la propria opera, anzi ne ha una visione parziale. Ovviamente mi riferisco alle buone letture; recentemente una persona mi ha sorpreso perché ricordava a memoria dei versi di una poesia pubblicata nel 2008 e che non ricordavo di aver scritto. Di “Squittii” posso dire che è stata scritta durante anni di ricerca: ho vissuto in Tanzania e Germania, ritornando di tanto in tanto in Spagna; la mia tensione era verso l’altro, lo straniero, la comprensione.

Come nasce il titolo?

Il titolo nasce per caso ed è posteriore alla maggior parte delle poesie che contiene. Lessi, non so più dove, che i topi cantano e mi ricordai di una mia poesia, dove un topo canta. Allora avevo in mente un racconto di Kafka, Josefine la cantante, nella traduzione di Camilla Miglio; mia docente di letteratura tedesca a “L’Orientale” ormai una vita fa. I topi cantano ma noi non possiamo sentirli, associai questo stato del canto del topo alla poesia. Ora sono parzialmente d’accordo con me stesso: in realtà la poesia viene ascoltata, le canzoni sono poesia, tuttavia oggi abbiamo un senso diverso del piacere e del tempo; abbiamo sdoganato il piacere a parole, nei fatti parliamo di sveltine. Il canto ha sempre esercitato un fascino enorme su di me, non solo per i miei studi e ricerche sull’oralità, ma anche come opera che mi ha sempre ispirato, mi riferisco ai Canti di Giacomo Leopardi. Senza per questo voler fare paragoni o associare le due opere.

In molte delle tue poesie sono presenti più lingue (soprattutto italiano, swahili e tedesco), mi parli di questa scelta?

Non è stata una scelta, ho assecondato un’esigenza espressiva, poi l’ho coltivata; come dicevo, ho vissuto viaggiando, in questi anni. E ancora prima, l’inizio dei miei studi a “L’Orientale”, e poi la ricerca sono stati fondamentali. Recentemente, però, mi è venuta in mente una parte dello Zibaldone [94,95] dove Leopardi dice che conoscere più lingue dona una certa facilità nel pensare e nell’esprimersi, avrò forse fatto mio questo passo letto molti anni prima e poi dimenticato. D’altro canto, utilizzo per queste lingue, anche l’italiano, un linguaggio per lo più comune, quotidiano, come Heidegger credo che la poesia non sia un modo più alto della lingua quotidiana; io ho solo associato quotidianità e esperienze diverse, geograficamente lontane.

Quindi è una poesia multilingue, non rischi di scrivere solo per un pubblico colto?

Secondo me c’è un equivoco, si è normalmente portati a credere che una persona che conosce una lingua straniera sia più colta, ciò avviene spesso con l’inglese – o con l’italiano a scapito dei dialetti – la lingua è una chiave, fondamentale, ma di per sé non ti rende più sapiente. Con tutte queste statistiche sulla comunicazione e presunzioni su cosa è comunicabile o no ci abituiamo a non pensare e sottostimiamo il fruitore. È ovvio che la poesia e l’arte presuppongano la volontà della persona-fruitore di accoglierla, che vuole prendersi del tempo per leggere e ascoltare. Non è mia intenzione chiedere al lettore di essere uno specialista, né di lingue africane, né di poesia, tutti – in modi diversi e livelli diversi – siamo capaci di apprezzare e fare esperienza proficua della poesia, spesso non lo sappiamo, ma è quello che avviene quando ci esponiamo ad una canzone, che è anche testo, poesia. La poesia è fatta di parole, parole e lingue che usiamo tutti i giorni, tanta enfasi oggi a tutti i livelli, dall’accademia al giornalismo, dalla politica alla società, per essere comunicativi e accattivanti, mentre la difficoltà viene stigmatizzata, anche a scuola. Si sottostima la comprensione delle persone, non si promuove la conoscenza, non si coltivano talenti. Questa comunicatività non fa parte del mio linguaggio, preferisco correre il rischio di essere non comunicativo, illeggibile, e magari, un giorno, prendendo in prestito parole prese in prestito da Mimmo Grasso a Valery, trovare quel lettore che mi leggerà cento volte, piuttosto che cento una sola volta. Non è una dichiarazione snob, come poeta gioisco per ogni singolo lettore che si accosta alla mia poesia; cerco in ogni modo, senza tradire la mia poesia, di rendere più leggibili i miei testi, per questo, dove la presenza delle lingue straniere è predominante, oltre la traduzione in nota, ho fornito un link (https://www.youtube.com/watch?v=kavz-Y-HGDg&list=PLEH64_JkNziRzD_fOohwItvzLy4yIH5vX) dove si può ascoltare il suono. Inoltre, ho un rapporto con la mia scrittura totalmente aperto alle contaminazioni con altre arti, la performance dell’attrice Francesca Ciardiello ne è un esempio. https://www.youtube.com/watch?v=ZEaTSSoCWA0&t=78s.

Quindi qual è il compito della poesia oggi?

La poesia non ha nessun compito, così come non lo ha l’arte; hanno sicuramente delle funzioni a livello cognitivo che non abbiamo ancora compreso, credo, e che hanno una vita oltre l’intenzione degli autori. Artisti e poeti possono darsi dei compiti, ma non per questo sono automaticamente moralmente buoni e metodologicamente validi. L’arte non è un mezzo. Dolci pensieri, belle parole, freddure non sono condizione sufficiente per la poesia. Forse un compito importante oggi sarebbe far “ridiscendere” la poesia tra noi; non so se hai mai notato che dire “sono un poeta” è sempre accompagnato con sorpresa, come atto di hybris: non è una cosa normale. La poesia non è santità – ammesso che la santità esista. È una malsana abitudine dare un compito all’arte per nascondere con concetti morali o produttivi il piacere, di cui altrimenti ci vergogneremmo. L’arte e il piacere richiedono e ci donano tempo, non hanno nulla di economico. Non sto dicendo che sfuggano alle leggi del mercato, anzi; ma questo ci porta lontano. Oggi che la poesia si è liberata dal dover celebrare i potenti, si dovrebbe, credo, liberare anche dal “decoro” (in tutti i sensi) e abbandonare ogni posizione di retroguardia, nostalgica difensiva, ogni falso rispetto. Dovrebbe con tutti i suoi strumenti, antichi e nuovi, sfidare la nostra comprensione, la nostra fantasia, foriera di libertà.

 

 

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