Roberto Todisco
Parole e ombre/17

Il figlio unico

«Se con Rachele avevo oltrepassato la soglia, la storia con Alice mi aveva dato una certa disinvoltura nel mentire a Giovanna. Il tradimento faceva parte della mia vita e mi dava gusto. Avevo anche preso a desiderare mia moglie con un filo di cattiveria che portava a sporadici, ma furibondi amplessi notturni...»

Immagine di Giulia Barone

La prima volta è stata piuttosto sordida. Anche se devo dire che le pareti spoglie, il mobilio da quattro soldi e la ferinità muta di Rachele mi hanno aiutato a fare il grande salto, a liberare la faccenda da qualsiasi implicazione emotiva. Eppure quando sono tornato a casa sentivo il cuore battermi sulla punta delle dita. Stavo per raccontare tutto a mia moglie Giovanna: a quarantadue anni, dopo quindici di matrimonio, l’avevo tradita per la prima volta, e l’avevo fatto con una donna con cui avevo scambiato in tutto una dozzina di frasi, e che mi aveva attratto per il suo corpo spigoloso e scuro e per la sua naturalezza selvatica. Poi un poco alla volta mi sono calmato, il peso che avevo sul petto e che mi mozzava il fiato, un miscuglio di senso di colpa e convinzioni morali, si è dissolto. Restava un lieve fastidio persistente, come un pizzicore. Allora l’ho fatto di nuovo.
A una festa a casa di amici mi presentarono con entusiasmo Alice. L’unica persona al mondo con cui puoi parlare del tuo amato cinema muto svedese, mi disse Gaetano ridendo. E in affetti chiacchierammo con grande trasporto, non solo di Sjöström naturalmente, ma anche di escursioni, di ciclismo, dei suoi amori sfortunati e del mio matrimonio felice. Le chiesi il numero di telefono, con quel pizzicore che ormai si stava trasformando in un richiamo, un’ebrezza, e il battito dentro alle dita. Alice era una donna alta e rigogliosa, con gambe muscolose e una massa di capelli ricci che quando era nuda le arrivavano a coprire per metà le natiche. Avemmo una relazione di tre mesi, fatta di sesso atletico e cene mangiate sul letto. Poi Alice partì con uno dei suoi amori sfortunati per un viaggio in India e non l’ho più rivista.
Se con Rachele avevo oltrepassato la soglia, la storia con Alice mi aveva dato una certa disinvoltura nel mentire a Giovanna. Il tradimento faceva parte della mia vita e mi dava gusto. Avevo anche preso a desiderare mia moglie con un filo di cattiveria che portava a sporadici, ma furibondi amplessi notturni.
Dopo c’è stata Patrizia, una collega poco più grande di me alla ricerca di una scossa da dare al suo matrimonio. La scossa ero io. Per quasi un anno abbiamo approfittato delle trasferte per sgattaiolare nella stessa stanza d’albergo. Dopo aver fatto l’amore rimetteva gli occhiali e si pettinava i capelli.
Via via sono venute tutte le altre. Devo ammettere che a volte ero spinto non solo dal desiderio di scoprire nuove forme sotto i vestiti, di sentire nuovi odori, di vedere nuovi modi di atteggiare le labbra, durante un orgasmo. E neanche era solo la voglia di giocare ogni volta il gioco della seduzione. Cercavo ancora quel battito dentro le dita, quella sensazione che la prima volta era stata un tormento, e di cui ora sentivo il bisogno. Per farlo dovevo spingermi un poco più oltre. È stato così con Chiara, la più cara amica di Giovanna, alla quale mi divertivo a sussurrare all’orecchio di quelle volte che mi aveva provocato segrete e peccaminose erezioni. Dopo un mese di burrascosa relazione lei fu sopraffatta dai sensi di colpa e mi lasciò. Si è trasferita addirittura in un’altra città. Le dita me le ha fatte battere anche Viviana, diciotto anni appena compiuti, una rosa tatuata in mezzo ai seni e i peli lasciati crescere sotto le ascelle. Ci incontravamo una volta al mese, quando andavo a Milano per lavoro, per il resto del tempo erano infuocati messaggi scambiati al telefono.


È in questo stato vorticoso che ho incontrato Nicoletta, a una di quelle assurde e deprimenti rimpatriate fra compagni di scuola. Non la vedevo da almeno dieci anni. Sembrava invecchiata più in fretta degli altri, ma la magrezza e la trama di rughe sul viso non la imbruttivano, anzi, le davano un fascino misterioso che mi aveva subito attratto. Poi aveva un modo di muovere le mani che incantava e sorrisi che si facevano largo all’improvviso nel buio. Aveva un’aria seria e riservata, per questo fui sorpreso quando accettò il mio invito a cena per il giorno seguente, nonostante sapeva fossi sposato. Prima di iniziare a mangiare mi guardò dritto negli occhi e mi disse, Cosa credi, mi è arrivata all’orecchio la voce, lo so che tipo di uomo sei. E tu che tipo di donna sei? Le chiesi. Una delle più particolari. Scoprii cosa voleva dire solo due settimane dopo, quando, dopo molte insistenze, a cui lei sfuggiva sempre con sorrisi e battute fulminanti, aveva accettato di venire con me in un albergo, uno di quelli ad ore sulle strade provinciali, ma pulito e vagamente elegante. In quelle due settimane eravamo andati a qualche matinée al cinema, ci eravamo raccontati le nostre vite, saltellando da una storia all’altra, e scambiato baci piuttosto timidi per la nostra età. Nella stanza d’albergo tornai a sentire il cuore sulla punta delle dita, mentre Nicoletta si toglieva le scarpe, si sfilava la gonna e le calze. Poco prima mi aveva fermato quando avevo iniziato a spogliarla, e mi aveva chiesto di sedermi sul letto e guardare. Ecco, disse con un’espressione che all’improvviso la riportò all’aspetto che aveva da adolescente. Si era spogliata del tutto. Capii. Le mancava un seno. Accanto a quello destro, gonfio, con il capezzolo già duro, aveva una cicatrice. Aveva anche altri segni sul resto del corpo, alcuni come di scottature, e una cicatrice poco sopra l’inguine. Dovette interpretare il mio silenzio per turbamento, addirittura per repulsione e fece per raccogliere i vestiti che stavano ai suoi piedi, ma la fermai e la feci stendere accanto a me. Iniziai a baciarle il collo, le spalle, sfiorai con la punta della lingua la cicatrice sul petto, poi mi spostai sul seno e morsicai piano il capezzolo. Quando la feci venire baciandola in mezzo alle gambe mi coprì gli occhi con la mano. Aveva dita fredde.
Ci vedemmo molte volte in quella stanza d’albergo. Facevamo l’amore e poi parlavamo restando nudi. Nicoletta non mi copriva più gli occhi e mi raccontò della malattia, delle operazioni e delle terapie, delle paure che la tenevano sveglia la notte. Mi chiedeva di toccarle il seno più che potevo, di morderlo e di venirci sopra, per farle sentire proprio lì il calore del mio sperma. Come tutti i figli unici è un viziato. Rideva. Io le raccontai del battito alla punta delle dite e della smania che da qualche anno aveva invaso la mia vita e che con lei sembrava svanire. Ci voleva un puttaniere come te per farmi spogliare davanti a un uomo, dopo tutto questo tempo.
Poi all’improvviso smise di rispondere ai miei messaggi. Quando la chiamavo era vaga, distratta. Rimandava di continuo il nostro prossimo appuntamento. Preso dal desiderio di sentirla ci mancò poco che mi facessi scoprire da mia moglie. Dopo qualche settimana così, sparì del tutto.
Quando mi chiamò Andrea, un nostro vecchio compagno di scuola, per darmi la notizia, feci uno sforzo sovrumano per simulare un contenuto dispiacere. Giovanna dovette vedermi con la faccia stravolta, perché mi chiese allarmata cosa fosse successo. Caddi in ginocchio ai suoi piedi e iniziai a piangere.


Roberto Todisco è nato a Napoli il 16 settembre 1982. Laureato in Lettere Moderne alla Federico II. È molto attivo nell’associazionismo sul territorio, in particolare sulle tematiche ambientali e sociali. Nel 2016 è fra i finalisti del premio letterario “Radici Emergenti” con il racconto “Semi” per il quale riceve una menzione speciale. Il racconto viene pubblicato in un volume edito da Infinito Edizioni. Nel 2017 è fra i finalisti della 30° edizione del Premio Italo Calvino con il romanzo Jimmy l’Americano. Nella finale è fra i vincitori di una menzione speciale. Il romanzo è stato pubblicato nello stesso anno da Elliot Edizioni.


Giulia Barone (Roma, 1994) Vive e lavora a Roma. Ha conseguito il Diploma Accademico di 1° livello in Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nel 2017 e attualmente frequenta il Biennio di Grafica e Fotografia. Ha continuato lo studio della fotografia alla Faculdade de belas-artes de Lisboa, in Portogallo. Tra le principali mostre collettive: Il Mostro #4 e#8, by Luciano Corvaglia, Tevere Art Gallery, Roma (2016-17); “Immaginario”, Galleria Talent Art, Roma (2017); “Il Cadavere Squisito #15”, by di Virginia Zeqireya, Tevere Art Gallery, Roma (2017); Museo arte contemporanea Limen, Vibo Valentia, (2017); “Pulsazioni”, a cura di Generazione H, MACRO Testaccio, Roma (2018). Personali: “s.t.” – fotografie di Giulia Barone, Galleria Acta International, Roma (2017).

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