Flavio Fusi
Cronache infedeli

Carissimi nemici

Putin e Erdogan hanno finto di essere su due fronti opposti nella terribile guerra del Nagorno Karabakh. In realtà, contraddicendo secoli di storia, hanno trattato insieme per tornare da vincitori nel Caucaso. E il mondo sta a guardare...

Così doveva finire. Gli armeni, cacciati dai villaggi del Nagorno Karabakh dopo la rovinosa campagna di guerra tra Erevan e Bakù, bruciano le loro case, che non vogliono abbandonare intatte ai nemici. Sono contadini e pastori, misera gente che prima di mettersi in viaggio assiste al rogo di stalle e fienili e con rabbia dichiara che porterà con sé le bare degli avi, strappate alla terra dei cimiteri: «Le nostre case, non potevamo consegnarle ai turchi, e anche i nostri morti vengono con noi, non lasceremo profanare le loro tombe».

Nulla cambia, nella storia delle vittime. Era l’inverno del 1994 e noi cronisti-testimoni – appostati sotto il nevischio gelido sulla strada che dalla periferia di Sarajevo si arrampica sui monti di Pale – assistevamo allo spettacolo dei vinti: i serbi cacciati dalla città e in ritirata verso i territori rimasti fedeli a Belgrado. Nella lunga processione di trattori, vecchie auto e antiche macchine agricole, arrancavano anche camion carichi di bare di legno marcio: insieme ai vivi, anche i morti – strappati nella notte alle fosse dei cimiteri – lasciavano il teatro di guerra.

Come ieri nei Balcani, così oggi nel Caucaso meridionale: dopo la sanguinosa resa dei conti e migliaia di morti, è ora il momento di una pace più dolorosa della guerra. Il Nagorno Karabakh è mutilato, e i distretti di Kalbajar e di Aghdam, con i villaggi strappati negli anni Novanta dagli armeni agli azeri (i “turchi”) tornano sotto il controllo e la bandiera di Bakù. 

Vince, stravince l’Azerbaigian di Ilham Aliyev, rampollo di una lunga dinastia di funzionari sovietici. Perde il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, che da oggi deve temere non solo per il suo scranno, ma anche per la vita, se sono vere le notizie di complotti e losche trame di dignitari e servizi di sicurezza.

Ma lasciamo per un attimo il freddo e i pianti, il sangue e il fango di questa sventurata enclave e affacciamoci nelle stanze ricche, calde e ben illuminate dei potenti che muovono le pedine del dramma. Da giorni, la televisione di Mosca trasmette immagini delle truppe russe in viaggio verso il Nagorno Karabakh. È questo il premio per Vladimir Putin, che torna nel Caucaso trionfante, per la prima volta dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. I militari russi – mille soldati e 90 blindati – resteranno nell’area per cinque anni, ufficialmente per vigilare sulla linea del fuoco tra azeri e armeni. Dunque, lo zar del Cremlino muove e vince, nonostante fin dall’inizio della crisi si sia schierato dalla parte dell’Armenia. La pax russa domina su territori un tempo in tumultuosa rivolta. Sono lontani i giorni in cui a Mosca la giornalista dissidente Yulia  Latynina poteva ammonire che il Caucaso sarebbe stato il «Vietnam della Russia».

Muove e vince anche Recep Erdogan, protettore dei fratelli azeri: musulmani, ex sovietici redenti e soprattutto grandi produttori di petrolio. Il califfo turco si accredita come campione degli interessi economici e religiosi del “Caucaso di Allah”, apre verso est un nuovo fronte di influenza, e le televisioni di regime interpretano in questi giorni l’esultanza degli azeri come una vittoria nazionale.    

Dunque, nemici al fronte e complici al tavolo della pace. Come dicono i politologi, questa è una classica “win win situation”: una sfida paradossale in cui alla fine vincono entrambi i contendenti. E soprattutto – come titola The Guardian – la breve e sanguinosa crisi del Karabakh “ridisegna l’intera geopolitica regionale”. Un nuovo assetto in cui Ankara e Mosca sono i potenti ed esclusivi kingmakers del Caucaso del sud.

L’Occidente appare, e non da oggi, fuori del gioco. La conclusione di questa crisi è uno schiaffo sonoro per l’Onu e il Gruppo di Minsk (di cui fanno parte Francia e Stati Uniti) incaricato fin dagli anni Novanta di costruire una pace stabile in Karabakh. Del resto questa strategia degli autocrati non è una novità. Come scrive ancora The Guardian, «Russia e Turchia hanno applicato lo stesso  schema nella guerra di Siria e nella crisi libica: usano i  gruppi rivali per negoziare una pace che accresce la rispettiva influenza nell’area a scapito degli interessi occidentali».

Quello del rapporto tra Turchia e Russia è uno dei temi più affascinanti per gli storici dell’era moderna. È dal sedicesimo secolo che le due potenze si sfidano in una guerra continua, con alterni risultati, quasi senza soluzione di continuità. Di guerre russo-turche sono pieni i manuali di storia, e i cadaveri di migliaia di vittime hanno concimato nei secoli i territori contesi tra i due imperi.

Oggi il campo di gioco è ben diverso, e rovescia tutti i luoghi comuni accumulati nel passato. Come scrive Limes, «l’alleanza tattica partorita dal matrimonio di interesse tra Turchia e Russia è una delle specie più curiose del bestiario geopolitico, frutto di una relazione contronatura, quasi incestuosa».

Sia Putin sia Erdogan si mostrano insensibili ai tormenti degli storici, e mentre incassano lauti dividendi dalle crisi in atto hanno già  in programma un vertice per il gennaio prossimo. A Mosca o ad Ankara – virus permettendo – i carissimi nemici si incontreranno di nuovo, per esaminare una agenda fitta di capitoli e fino ad oggi top secret.

Il Grande gioco – il conflitto che per tutto il diciannovesimo secolo contrappose a Oriente l’impero inglese e quello russo – sembra oggi rivivere nella ambigua sfida tra le due moderne autocrazie di Mosca e Ankara. Intanto, sipario, per la breve guerra del Nagorno Karabakh. Resta nelle retrovie il tormento di centinaia di migliaia di profughi, di cui il vasto mondo non ha notizia né pietà: un pulviscolo umano impalpabile come la polvere battuta via dai vecchi tappeti. Negli anni Novanta, tra le cianfrusaglie accatastate sui carri, i serbi sconfitti portavano con sé anche il ritratto incorniciato del piccolo padre Slobo Milosevic, l’uomo che li aveva venduti al nemico facendo finta di difenderli. Oggi gli sfollati del Caucaso non hanno nemmeno un ritratto da incorniciare, un santo da pregare o da maledire. In questo “Torneo delle tenebre” (Tournamente of Shadows, era questo il secondo nome del Great Game) ogni contendente siede al tavolo da gioco nascosto da una maschera.

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