Lorena Spampinato
Parole e ombre/4

La schiena

«Sua madre era una donna alta e corpulenta, le braccia lunghe come tronchi, le dita che parevano tentacoli. Lo chiamava tesoro, oppure Nico, e intanto gli sbatteva sulle spalle quelle che per lei erano pacche d’incoraggiamento»

Immagine di Giulia Cavallini

All’età di sedici anni Nicola Schisò aveva una spalla più alta dell’altra, un fianco ­– solo uno – che sporgeva oltre il busto e una gamba che pareva accorciata quasi gliel’avessero mozzata. L’asimmetria era data dalla schiena. La colonna di vertebre ricordava quei serpenti di legno costruiti a spicchi che ogni tanto si vedevano per mano a qualche venditore ambulante e che anch’egli possedeva. Dalla schiena ossuta si ergeva inconfondibile quella forma a esse tutta spigoli che gli sformava ogni linea, al punto che se lo si fosse diviso in due parti – come egli spesso immaginava – sarebbero venuti fuori due corpi distinti: uno basso, incavato, rachitico, l’altro slanciato e in salute, di forma rotonda.

Il mancato equilibrio del suo fisico si ripristinava sulla sola faccia: un viso comune, come se ne vedevano tanti in giro, con gli occhi piccoli e scuri, il naso appena pronunciato e due labbra sottili come cerniere.

Quando sua madre Agnese lo tirò per un braccio non oppose resistenza. Si lasciò trascinare andandole appresso storto com’era, inciampando più volte sui suoi stessi piedi come se non gli riuscisse di trovare l’equilibrio.
Sbrigati o facciamo tardi, disse lei.

In un attimo furono fuori dall’abitazione. Anche per strada – complice un vento furioso – continuò a ordinargli un passo veloce strattonandolo adesso per il bavero della camicia che intanto prendeva la forma arricciata delle sue dita. Camminarono a fatica per un lungo tratto fino a raggiungere la salita della Sermoneta, e lì si fermarono sotto la pensilina ad arco ad aspettare l’autobus. Non si misero a sedere; restarono in piedi l’uno accanto all’altro come sentinelle in attesa.

Sua madre era una donna alta e corpulenta, le braccia lunghe come tronchi, le dita che parevano tentacoli. Lo chiamava tesoro, oppure Nico, e intanto gli sbatteva sulle spalle quelle che per lei erano pacche d’incoraggiamento. Voleva fargli forza; lui non sapeva ancora per cosa. Sapeva che l’autobus li avrebbe portati in città. Sapeva che avrebbero visto un dottore. Un luminare, aveva detto sua madre. Ciò che non sapeva era che quel giorno l’avrebbe ricordato per tutta la vita.

Adesso le mani di sua madre premevano sulle scapole come spilli, esercitavano un peso che Nicola conosceva bene. La gravità pareva concentrarsi tutta sotto a quei polpastrelli affilati.

Sta’ dritto, diceva sua madre mentre con le dita gli spingeva la schiena in avanti.

E lui s’allungava come poteva, alzava una spalla, poi l’altra, come se stesse nuotando. Tirava in su il mento recuperando alcuni centimetri in altezza, poi inarcava la schiena sforzandosi di mantenere la posizione.

Quando provava a raddrizzarsi a quel modo non sapeva più muoversi.

Tratteneva il respiro come se fosse sceso sott’acqua, e il corpo si paralizzava attorno a quella posa innaturale. Allora s’appoggiava a qualcosa: con la mano cercava un equilibrio. Senza pensarci troppo s’aggrappò alla veste di sua madre: la strinse con tutte le forze. La stoffa leggera del vestito non impedì alle unghie irregolari di ferirgli il palmo. Voleva che il dolore se ne andasse dalla schiena, che si manifestasse ovunque sul suo corpo, ma non lì. Strinse più forte: sentì le unghie attraversare la carne. Lo rassicurò la posizione di controllo che aveva nei confronti del suo corpo. Sapeva trasferire il dolore, sapeva scegliere per cosa soffrire.

Agnese agitò le mani in aria verso l’autobus in lontananza. Nicola tirò un sospiro di sollievo: quella veloce distrazione gli assicurò qualche secondo di fiato. S’incurvò come se dovesse arrotolarsi su se stesso; finse di volersi abbassare per raggiungere le scarpe. Avrebbe stretto meglio i lacci se sua madre non l’avesse tirato in avanti.

Coraggio, andiamo, disse lei.

Salirono sull’autobus in uno stato confusionale: gli occhi abbacinati dal caldo, la faccia sudata. Sua madre pareva agitata, stringeva le labbra tra loro fino a farle sparire, poi si asciugava il sudore dal naso con il dorso della mano. Faceva così quando pensava di doversi scusare di qualcosa.

L’autobus era quasi sgombro. Lo stesso rimasero in piedi. A osservarli c’era una coppia di anziani che parlava e masticava. Con lo sguardo li invitarono a prendere posto. Fu forse per cortesia che Agnese accettò di sedersi. Lo fece senza alcun garbo, però sorridendo. Nicola replicò il gesto. Imitò la madre nell’atto di chinarsi, ringraziò piegando gli angoli della bocca all’insù.

Fu allora che la vide. Dal sedile davanti al loro sbucava presuntuosa una mano inanellata di signora. Nicola pensò a un’allucinazione. Gli occhi si strinsero in un cruccio sospettoso. Qualcosa guastava la linea armoniosa del palmo. C’era, da qualche parte, un’anomalia – un difetto.

Quando si sporse per vedere meglio notò un frasario francese-italiano. La mano breve e nodosa era una mano straniera, pensò Nicola. Difatti si muoveva con grazia inconsueta, disturbata soltanto da un dettaglio di troppo. Non gli riuscì di scorgerlo subito. Lo sguardo era governato dalle unghie laccate e levigate, rese imperiose dallo smalto scuro, rosseggiante. Le piccole dita parevano chele di granchio. A Nicola sembrarono consumate dall’affetto – dall’abbondanza.

Quel pensiero gli rese evidente il ridicolo esubero. Subito contò le dita: una, due, tre, quattro, cinque – sei.

Erano sei.

Nicola le osservò con una punta di entusiasmo. Il sesto dito sorgeva indisturbato tra gli altri, si accordava al disegno con severa vanità. A Nicola sembrò che evocasse una virtù – una giovinezza. Quasi che l’infanzia tornasse nitida in quell’unico punto – in quell’unico dito.

Sul fondo degli occhi gli si presentò il momento in cui la mano generosa premeva l’incavo delle sue scapole. Immaginò che gli aggiustasse la postura a quel modo. Come faceva sua madre, ma con maggiore premura.
Nella mente di Nicola si avverava l’idea che le piccole dita misurassero a carezze l’asimmetria del dorso. Le scoprì a contare le vertebre storte.

Quell’inezia gli procurò un fremito. Uno spasmo risalì la schiena spiovente.
Subito alzò gli occhi verso sua madre. La testa vaporosa di Agnese era riversa sul finestrino. Dunque non lo guardava. Ne fu sollevato.
Era la prima volta che Nicola aveva di quelle fantasie per una sconosciuta. Non voleva testimoni.

Voleva solo che la mano forestiera continuasse ad apparirgli come in sogno. Si mise in attesa del suo tocco clandestino. Voleva sentirlo scendere per la spina dorsale.

Immaginò che il sesto dito indugiasse nel punto in cui la schiena si torceva. Una pressione lieve, indolente, che pure lo ringalluzzì. Difatti sentì i polmoni aprirsi, spingere contro il torace.

La somma dei difetti annullava ogni sproporzione, la colmava
Questo pensava Nicola mentre tentava invano di abbracciarsi, di raggiungere con le sue stesse dita il punto in cui pensava si fosse annidato il piacere. Sentì un vago conforto.

Allora si tirò in piedi. Ondeggiò fino al gabbiotto dove sedeva l’autista. Lì unì le mani come in preghiera. Voglio scendere, disse.

Lanciò un’ultima occhiata al profilo sonnecchiante di Agnese. Poi alla straniera, alla sua mano prodigiosa. Lei per la prima volta lo guardò, gli sorrise.

Poiché non seppe ringraziarla le mostrò la schiena.


Lorena Spampinato è nata a Catania nel 1990. A diciotto anni ha esordito con il romanzo La prima volta che ti ho rivisto (Fanucci editore, 2008) e si è trasferita a Roma dove si è laureata in Scienze Politiche. Adesso si occupa di editoria e comunicazione. Con Fanucci editore ha pubblicato anche Quell’attimo chiamato felicità (2009) e L’altro lato dei sogni (2011). Il silenzio dell’acciuga (Nutrimenti, 2020) è il suo romanzo più recente.


Giulia Cavallini nasce a Roma nel 1986. Ha conseguito la Laurea triennale in Disegno Industriale e la Laurea specialistica in Design dei Sistemi presso l’Isia di Roma, dove ha ricoperto l’incarico di assistente alla cattedra di Graphic design. Successivamente si trasferisce a Londra dove lavora come Visual Designer presso l’agenzia Concise Group. E’ illustratrice, ha realizzato le illustrazioni del libro “King Marvin and the Ballroom of Clocktown” e collabora con musicisti e con etichette musicali tra Roma e Londra, realizzando copertine di dischi, ritratti di artisti.

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