Anna Voltaggio
Parole e ombre/9

Intimità

«Eravamo a metà del nostro metro e mezzo di separazione, le mani non si erano sfiorate ma c’era mancato poco, nessuno dei due indossava i guanti. Rimasi con il braccio a mezz’aria qualche secondo»

Immagine di Romina Mosticone

I faretti al neon del soffitto erano disposti su due file, costruivano rette parallele di cui non si vedeva la fine.

Le persone erano ordinatamente una dietro l’altra a un metro e mezzo di distanza.

Non volava una mosca.

Per lo più si guardava lo schermo del cellulare o dritto davanti a sé.
Io avevo un libro, cercavo di leggere ma la fila mi distraeva, il silenzio così ordinato mi distraeva e allora alzavo lo sguardo tanto spesso da essere costretto a ricominciare ogni volta l’inizio del paragrafo; la frase che leggevo era sempre quella, “qualcuno ha detto, una volta, che ogni forma di infelicità degli uomini deriva dalla speranza”, non era il massimo.

Alle mie spalle la fila cresceva, adesso faceva addirittura la curva. Mi chiedevo cosa succedesse dietro l’angolo dove in effetti c’erano le scale mobili. Mi domandai se fosse possibile che tutti, coordinati in modo surreale, si fossero accordati per scendere a vuoto tre gradini della scala che intanto saliva nella sua meccanica indifferenza, in modo da rimanere in fila, immobili nel movimento perpetuo.

Morivo dalla voglia di saperlo, e mi sembrava di sentire piccoli rumori sordi che associavo a piedi che scendevano, si fermavano un istante e poi scendevano di nuovo.

Non potevo muovermi, mancavano 100 metri all’arrivo, era escluso che perdessi la mia posizione.

Cercai di distrarmi, di leggere.

Qualcuno ha detto, una volta, che ogni forma di infelicità degli uomini deriva dalla speranza

Procedevamo, la fila avanzava lentamente e ancora non vedevo l’ingresso, poi sentii cadere qualcosa, chiavi forse, appena dietro di me.

Mi voltai tenendo gli occhi al pavimento, intercettai un portachiavi con un grosso medaglione di bronzo, che aveva inciso il numero 3120.

Mi chinai e la mia mano incontrò la mano poco curata di una donna.

Afferrai io il portachiavi e ci alzammo insieme

Quindi vidi per prima cosa la sua mano, poi le sue ginocchia, poi il bacino, poi il seno, poi vidi lei.

Sorrisi di stupore. Non mi sarei mai aspettato di trovare un viso conosciuto, perché per quanto poco la conoscessi, sapevo chi era.

Lavorava come barista in un locale in cui andavo spesso, ci salutavamo, scambiavamo due chiacchiere, mi faceva grandi cocktail.

Le braccia tatuate, i lineamenti gentili.

– Ciao – dicemmo contemporaneamente. Notai che dopo la prima occhiata disattenta mise a fuoco qualcosa, perché addolcì, anche se appena appena, lo sguardo.

Eravamo a metà del nostro metro e mezzo di separazione, le mani non si erano sfiorate ma c’era mancato poco, nessuno dei due indossava i guanti.
Rimasi con il braccio a mezz’aria qualche secondo anche dopo che riprese le chiavi, mi chiedevo se era una di quelli che le avrebbe disinfettate una volta rientrata a casa.

– Come va? –

– Bene! – Mi uscì con un entusiasmo improprio – Adoro fare file lentissime di centinaia di metri – aggiunsi per non sembrare un cretino – Non ti vedevo da un po’… –

– Esco poco, praticamente solo per questa fila entusiasmante e poche altre. –

Mi piaceva. Era bella e per di più mi piaceva.

Dicemmo alcune cose con un tono leggero, che sembrava così fuori contesto. Avevamo entrambi l’aria intonata alla primavera che nonostante tutto era tornata.

– Figurati, io non sono ancora mai uscito fuori dal quartiere – le dissi.

– Neanche io, via Saffo è la mia roccaforte. –

Nel nostro quartiere la metà delle strade aveva il nome di poeti, l’altra metà di alberi: pioppi, aceri, magnolie. Mi sembrava romantico, ma in fondo era soltanto perché i nomi di quelli che hanno fatto la Storia li avevano presi in centro città.

A me stava bene.

– Anche la mia – le dissi contando di sorprenderla – ci vivo in via Saffo.

– Lo so –

Dovevo averla guardata con un’aria interrogativa, perché poi aggiunse:

 – Ti vedo dalla finestra –

La fila si era mossa, non avevo sentito l’attesa, il mio libro era rimasto incollato alla mano, con l’indice a tenerne il segno.

Con un gesto improvviso infilò una mano in borsa da dove si sentiva la vibrazione del cellulare, ne approfittai per fare mente locale velocemente e ricordare se l’avessi mai vista uscendo da casa o rientrare a casa, se l’avessi mai incrociata al supermercato o altrove.

Con le file tutto era cambiato, lo spazio si divideva in modo nuovo, la linearità limitava lo sguardo.

Non rispose.

Doveva essere la finestra della camera da letto che vedeva, che per giunta era senza tende.

Mi piaceva che lo avesse detto con quella sicurezza che mi voleva spiazzare. Aveva socchiuso gli occhi come fanno i felini alla luce e aveva quel sorriso che hanno le ragazze quando lasciano intendere qualcosa di vago e pruriginoso.

 – Mi sembra evidente che dovrò rivedere alcune abitudini adesso che so di essere spiato, ma ormai lo saprai che sto sempre in mutande dentro casa, giuro che è per quel cazzo di riscaldamento condominiale. –

Ridemmo insieme come se ci fosse una complicità pregressa, come se ci fossimo svelati un segreto.

 –  Ti avrò visto forse un paio di volte nudo dopo la doccia, ma di solito tendi a essere vestito.

Fu un solo colpo di tosse, ma forte.

Si girarono tutti. Chi era avanti a me, anche di svariati metri si sporse di lato per riuscire a vedere.

Le persone dietro la signora che aveva tossito scattarono indietro con ampi passi. La fila aveva perso la sua compostezza ma senza spezzarsi. Nessuno aveva lasciato la sua posizione ma il tono del silenzio era cambiato, si percepiva.

Non so se la signora aveva fatto in tempo a coprirsi la bocca con la mascherina che come quasi tutti teneva abbassata come fosse un girocollo.
Non ero riuscito a vederlo e lei, lei che si era girata d’istinto era stata davvero vicinissima a quel colpo di tosse.

Con la mano impegnata a tenere le chiavi non aveva potuto essere tanto veloce da coprirsi, e comunque non sarebbe bastato perché portava al collo la mascherina chirurgica, che serve a proteggere gli altri, non se stessi.

Mi guardò negli occhi con l’aria leggermente spaventata, non sapevo che dirle.

Non riuscii a rassicurarla in nessun modo, feci di peggio. Feci un passo indietro. Aumentai la distanza.

Lei rimase immobile qualche secondo in quello spazio che avevamo occupato insieme e poi indietreggiò abbassando il viso che riprese a sorridere, con un’aria che era comprensiva e delusa al tempo stesso. La conoscevo da meno di venti minuti e mi aveva fatto sentire un idiota già due volte.

Eravamo quasi all’ingresso. Ero il quinto dei cinque che potevano varcare la soglia.

Entrai, lei rimase in attesa del suo turno.

L’uscita era collocata dal lato opposto dell’entrata, quindi la salutai lì.

Riuscii solo a dire:

 – Ci vediamo alla finestra.

Passarono tre giorni e non la vidi mai. All’inizio mi ingegnai a cercare di capire quale fosse la sua, se era quella esattamente di fronte, con le tende bianche, o quella leggermente a destra, o quella del piano di sopra o di sotto. A sinistra c’erano le scale, potevo escludere quel lato.

Erano solo quattro le finestre possibili.

Di lei neanche l’ombra, a nessuna ora del giorno. Non so cosa mi prendeva ma avevo bisogno di vederla, avevo quasi bisogno di scusarmi per la reazione di panico che m’aveva afferrato. Mi sentivo in colpa, peggio, mi sentivo responsabile di averla persa.

Avevo iniziato a mangiare sul letto per capire in che momento sarebbe passata davanti alla finestra, guardavo i film interrompendoli di continuo per alzarmi e guardare fuori. Era diventata un pensiero fisso.

Cominciai a introiettare la sensazione che anche se andava tutto bene, mancava qualcosa.

Finalmente, quel terzo giorno, verso le sei del pomeriggio, comparve.

Scostò la tenda bianca mentre ero letteralmente incollato al vetro della mia porta finestra perso in pensieri illogici per cercare di stanarla, tipo gridare – Ehi, qualcuno ha del lievito da vendermi? Alzò la mano per salutarmi. La vedevo benissimo.

Poi incollò al vetro il mio romanzo, sgranai gli occhi. E lei rise.

Girai lo sguardo verso il comodino, c’era il pacchetto di Pall Mall, c’era il cellulare e nient’altro. Mi allontanai per guardare dentro lo zaino, dove allora avrebbe dovuto essere e non c’era. Feci per tornare alla finestra e il mio gatto sbucò dal nulla, tagliandomi la strada per saltare sulla libreria, recuperai l’equilibrio per un soffio, incollando entrambe le mani sul vetro.
Lei non si era mossa e mi guardava con la testa inclinata, indicai me stesso cercando di scandire con le labbra “è mio?”

Annuì e rise.

Le indicai la strada, era la mia occasione per accorciare la distanza che avevo messo, per recuperarla, ma scosse la testa, disse di no.

Poi, fece tutto quello che desideravo. Sbottonò la camicia e la lasciò cadere, sparì per un momento, piegandosi in avanti, e capii che stava sfilando i jeans.

Rimase nuda alla finestra, davanti a me che ormai ero incollato a lei.
La sua mano destra sparì sotto il davanzale, la sinistra spingeva sul vetro, tanto che avrebbe lasciato l’impronta. Eravamo uno dentro gli occhi dell’altra, e per un attimo mi sembrò di non desiderare altro nella vita che quell’intimità.


Anna Voltaggio. Nata a Palermo, laureata a Bologna in Letteratura Italiana, vive a Roma dal 2006. Ha lavorato come Ufficio Stampa per Fazi editore, l’Ancora del Mediterraneo/Cargo, Newton Compton, Elliot edizioni e attualmente per Nutrimenti Edizioni. Ha collaborato come ufficio stampa e consulente editoriale per case editrici, autori e autrici, festival, associazioni e manifestazioni culturali nazionali. Se non avesse scelto di fare l’ufficio stampa editoriale oggi sarebbe una psicologa molto ben pagata.


Romina Mosticone nata a Sora (FR) nel 1974. Ha imparato ad usare la macchina prevalentemente da autodidatta. Ha partecipato a diverse mostre collettive tra le quali alcune edizioni del “Mostro” (TAG, Roma), “Arte a Muro. Darkroom Project Six + Art Tag” ( Muro Leccese), “I sette mostri di Arles” (MaMo Temporay, Arles per Voies Off Festival), “Aria, acqua, terra, fuoco” (Calidarium Gallery, Roma), “Convergenze Expo” I e II edizione (ex Cartiera Latina, Roma), la precedente edizione di “Parole e Ombre” (TAG, Roma), “Roma in 100 centimetri quadrati” (Spazio40, Roma). Ha esposto il progetto personale “Giornate intere fra gli alberi” alla seconda edizione del “Convergenze Expo” (Roma) a giugno del 2019, il progetto “Kinky Girls Bodies” all’interno dell’evento “Witches Are Back” al Forte Prenestino (Roma) a febbraio di quest’anno e le foto del “Piccolo erbario dei giorni di crisi” sono attualmente esposte all’Atelier Montez (Roma). Ha inoltre fatto parte, nell’anno 2017-2018, del gruppo di lavoro Artisti della Tag Factory con cui ho esposto in due mostre, “Lost memories” e “Endorfine”.

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