Pier Mario Fasanotti
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Il ponte di Leonardo

Gabriella Airaldi racconta un misterioso progetto di Leonardo per Istambul; Umberto Galimberti racconta la filosofia ai piccoli e Fabrizio Galimberti spiega l'economia (e i suoi limiti) a chi non la conosce

Il ponte. Leonardo da Vinci portava sempre con sé un taccuino, ove appuntava idee e progetti. Tra questi – moltissimi dei quali mai realizzati – figurava la costruzione di un ponte destinato al sultano di Costantinopoli. Ma era sua anche l’ambizione di tradurre un’idea ardua e geniale, e per questo scriveva ad alcuni grandi dell’Occidente e del Medio Oriente. In queste missive si presentava come ingegnere e architetto oltreché esperto di matematica. È nota quella spedita, nel 1482, a Ludovico il Moro, signore di Milano. Un vero e proprio curriculum. Lo stesso fece con Bayezid II, capo degli Ottomani, che molto si adoperò per il suo territorio, facendo costruire tante moschee e opere infrastrutturali. Uno studioso di Istanbul riceve la copia di una lettera «dell’infedele Lionardo», fatta spedire in anno imprecisato (si conosce solo il mese: luglio) dal porto di Genova (la posta internazionale si avvaleva un tempo dei porti mercantili più noti dell’Europa). È il progetto per la costruzione di un ponte destinato a collegare il quartiere Pera Galata a Costantinopoli, così da rendere più facile gli spostamenti, militari ma non solo, tra due importanti poli ottomani.

L’idea di Leonardo era quella di consentire più facilmente il raggiungimento dell’Anatolia. Questo è il poco noto documento che l’editore Marietti 1820 ha pubblicato in questi giorni (Il ponte di Istanbul, di Gabriella Airaldi, 86 pg., 10 euro). Scrive Leonardo al sultano: «Io, vostro servo, ho saputo della vostra intenzione di fare costruire un ponte da Galata a Stambul, ma non siete riusciti a farlo perché non avere trovato un esperto. Io, vostro servo, ne sono capace». Altri risvolti della vicenda rimangono ignoti, salvo che il ponte non sarà costruito. Leonardo aveva in mente un ponte mobile di legno «cosicché sia possibile sistemare le pile senza fermare il normale deflusso dell’acqua e in modo che una nave con vele possa passarci sotto». Dopo Leonardo toccherà a Michelangelo essere interpellato, ma dovranno passare ancora tre secoli prima che si realizzi il ponte di matrice leonardesca. L’autrice di questo libro, docente di Storia Mediterranea all’università di Genova, descrivendo i rapporti molto stretti tra l’impero ottomano e le ricchissime comunità genovesi, ci illumina in modo accurato sui rapporti frequentissimi tra le due metà dell’ex impero romano.

Filosofia. Formalmente questo libro è destinato ai ragazzi, ma non farebbe male, anzi, che lo leggessero gli adulti. S’intitola Perché? ed è edito da Feltrinelli (220 pg., 19 euro). L’autore è Umberto Galimberti (con Irene Merlini e M.L. Petruccelli). In tono molto chiaro e coinciso sono spiegati i pensieri dei filosofi più importanti della storia. Qualche esempio. È con Talete di Mileto (VII-VI secolo a.C.) che nasce la filosofia. Il pensatore greco cerca l’origine di tutte le cose. Il principio del Tutto è da individuare nell’acqua, elemento senza il quale non esisterebbe il mondo che abbiamo sotto i nostri occhi, e nemmeno noi.  C’è stato un periodo in cui la civiltà araba insegnò molte cose al mondo. “Hai mai pensato che potresti anche non esistere?”. Domanda difficile. Avicenna diceva che possiamo pensare cose di tre tipi: impossibili, possibili, necessarie. Nella prima categoria il filosofo (che era anche medico e scienziato) ci mette, per esempio, i draghi: possiamo pensarli, ma non li troveremo da nessuna parte. Le cose possibili possono esistere oppure no, come gli uomini o le città. Tra quelle necessarie c’è poco da cercare: è una sola “cosa”, Dio. Siccome noi veniamo da Dio, necessariamente esistiamo anche noi. È la Ragione che si deve considerare, secondo Immanuel Kant (tedesco, 1724-1804). Il quale sostiene che è l’uomo il protagonista della conoscenza. Per conoscere qualsiasi cosa, mettiamo un fiore, c’è bisogno di due elementi: il fiore e noi che lo vediamo e quindi lo conosciamo. Prima di Kant, tutti pensavano che fosse sufficiente conoscere il fiore e sapere come è fatto; e come sono fatti gli occhi che lo guardano.

La scienza triste. Così viene ancora chiamata l’economia, anche se, visti i tempi incertissimi, aumentano le persone (soprattutto i giovani) che ne vogliono sapere di più. Un’occhiata alle statistiche: le facoltà più assediate oggi sono medicina, ingegneria ed economia. Un esperto della materia nonché docente universitario, Fabrizio Galimberti (nessuna parentela col filosofo di cui sopra) ha scritto un libro utile e di facile lettura (il ché non significa banale, anzi): L’economia spiegata a un figlio, Laterza editore, 216 pg., 12 euro). Diverte il capitolo nel quale si elencano le varie definizioni di questa (ingannevole perché inesatta) scienza, «che non gode di buona stampa». L’autore confessa di preferire, tra le tante, la seguente: «Gli economisti sono come i tassisti di Bangkok: mettetevene due assieme e avrete quattro opinioni, ognuna delle quali vi porterà, a caro prezzo, nella direzione sbagliata». E ancora: «Un economista è uno che sa il prezzo di tutto e il valore di niente»; «Un economista è uno che conosce cento maniere di fare l’amore ma non conosce nessuna donna»; «Il mio sogno della mia vita è trovare un economista monco». Pare che quest’ultima battuta sia attribuita al presidente Harry Truman o a Herbert Hoover, due presidenti Usa. Le domande sono infinite. Chi ha inventato la moneta? Chi ha truffato i cittadini con la stessa, sia che fosse d’oro o di argento? Da dove viene l’inflazione?

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