Flavio Fusi
Cronache infedeli

Gerontocrazia globale

Trump (e Biden) negli Usa, Putin in Russia, Erdogan in Turchia, per non parlare dei leader cinesi dai capelli tinti: il mondo odia gli anziani ma poi riserva loro i posti chiave del potere. Quando toccherà alle prossime generazioni?

Prima ancora che dalle inesorabili ragioni della  storia, l’antica Unione Sovietica fu letteralmente “affossata” da una fulminea morìa di vegliardi al potere. La serie maledetta inizia nel lontano novembre dell’82, quando muore a 76 anni Leonid Il’ic Breznev, che già da tempo  i cittadini sovietici chiamano amabilmente “la salma”.

Il successore designato, Yurij Vladimirovic Andropov, settanta anni e mille acciacchi, viene seppellito due anni dopo, nemmeno il tempo di riaversi dai brindisi dell’insediamento e di mettere mano ai giganteschi problemi del “socialismo in un Paese solo”.   

Al terzo tentativo i mandarini del Cremlino vanno chiaramente in confusione e innalzano al soglio che fu di Lenin un comprimario già agonizzante: Konstantin Ustinovic Cernenko (nella foto) ha 84 anni mal portati, che appunto lo porteranno alla tomba meno di un anno dopo.

Pensavo al mesto tramonto di quello che fu l’Impero del male mentre assistevo – in piena notte italiana – al confronto televisivo tra i due aspiranti commanders in chief di quella che fu la più vitale, giovane ed energica democrazia planetaria.  Il duello – o meglio, il match di lotta nel fango – tra il fellone 74enne Donald John Trump e il pallido gentiluomo Joseph Robinette Biden, che di anni ne conta  addirittura settantotto.

Questo è lo stato dell’arte, nel grande Paese che dell’ardore giovanile ha fatto un marchio di fabbrica nazionale e un esempio per tutto il mondo civilizzato. Peggio per l’America e peggio per noi, cercavo di consolarmi, mentre il corpulento bancarottiere faceva piovere un uragano di insulti e contumelie sul suo esterrefatto avversario. Peggio – molto peggio – per l’antico  Partito democratico che, dopo un giovane fuoriclasse come Barack Obama, non è riuscito a tirar fuori dall’esiguo mazzo dei pretendenti  niente di meglio che questo esangue sleepy Joe: Jo il dormiglione, o Pisolo, come lo sbertuccia un giorno sì e l’altro pure il presidente bullo.  

Parteggio naturalmente per Biden, per la sua fragile caratura, per i suoi umanissimi problemi di asma, allergie, prostata e colesterolo. Ma chi mi garantisce – chi ci garantisce – che una volta eletto, nel tepore dello studio ovale, Jo il dormiglione non sia indotto a un confortevole pisolino di fronte ai complicati dossier del governo della nazione e del mondo intero?

È vero, come avverte Orazio, che «anche Omero a volte sonnecchia», ma Omero non aveva nelle sue mani il destino di una grande democrazia moderna. Ed è vero anche che nell’antichità classica il vecchio, l’anziano, il vegliardo era sinonimo di maestro di vita, onorato dall’intera società.  Intorno alla saggezza della vecchiaia le nostre antiche civiltà – dall’Occidente all’Oriente – hanno costruito interi sistemi filosofici e poetici, che ancora oggi parlano a noi contemporanei.

Da tempo – al contrario – la nostra epoca ha imboccato la via opposta, imponendo all’umanità una livrea di eterna giovinezza. Un rovesciamento di valori, che negli ultimi anni non trova tuttavia riscontro nella ridotta della politica e dei suoi governi. Fatale contraddizione: più la società moderna disprezza, compiange e mette in un angolo gli anziani, più gli anziani – certi anziani – sono spinti sul proscenio della politica. Nel nostro confortevole Occidente, per una Greta Thumberg sedicenne che sferza governi e parlamenti, ci sono decine e decine di politici vegliardi che assentono, si battono il petto e continuano ad agire come sempre, nel completo disprezzo delle ansie delle nuove generazioni.

La gerontocrazia domina, del resto, nelle dittature e nelle semi-dittature che prosperano nel pianeta. In Russia, il quasi settantenne Vladimir Vladimirovic Putin governa dall’inizio del secolo e ha appena cambiato la Costituzione per succedere a se stesso nei prossimi venti anni. Appena più giovane, il suo sodale-rivale Recep Tayyin Erdogan, con giovanilistica ferocia si applica a trasformare la laica Turchia in un potente e oscuro principato musulmano.  

A oriente, nel sinedrio del Comitato centrale cinese, gli anziani e anzianissimi dignitari si tingono i capelli con una brillantina color testa di moro per apparire eternamente giovani. Chi cade in disgrazia, esibisce – in manette e tra due gendarmi – candide capigliature. A Pechino, perdere il potere significa perdere la tinta per i capelli.

Più vicini a noi europei, ma mai così lontani, i leaders palestinesi hanno la stessa veneranda età del compianto Yasser Arafat, ed esibiscono la stessa mesta inclinazione alla sconfitta. Sul fronte opposto, Bibi Netanyahu ha passato la settantina e promette di governare e bastonare senza sosta i palestinesi fino a cento anni.

Nel lontano 1985, i vegliardi del Cremlino riuscirono infine a nominare segretario generale un energico cinquantenne di Stavropol: Michail Sergeevic Gorbaciov. Che in pochi anni cambiò il mondo e perse l’Unione Sovietica. Oggi l’uomo della perestroika si confessa in una lunga intervista al regista tedesco Werner Herzog (167 anni in due) e dedica al suo perduto amore Raissa i versi di una romantica poesia di Lermontov: «Che cosa aspetto, che cosa rimpiango? Nulla più mi aspetto dalla vita e nulla rimpiango del passato…».

Per tutto c’è una stagione, sembra dire il vecchio ragazzo di Stavropol.  Cosa vorrebbe veder scritto sulla sua lapide? chiede infine Herzog. «Ci abbiamo provato», risponde Gorbaciov. Ecco, questa è l’epigrafe per tutti i giovani leader del nostro passato: «Ci abbiamo provato, ma non ci siamo riusciti».

Facebooktwitterlinkedin