Pier Mario Fasanotti
A proposito di "Uccido chi voglio"

Il suggeritore di libri

Fabio Stassi ha scritto un romanzo misterioso e complesso, che cita continuamente Carlo Emilio Gadda (la storia è ambientata in Via Merulana) e riflette su una domanda cruciale: qual è il rapporto tra la realtà e la letteratura?

Il protagonista di questo originale romanzo, senza dubbio tra i migliori pubblicati dalla Sellerio (Uccido chi voglio di Fabio Stassi, 279 pg. 14 euro) è nato a Nizza 50 anni prima (sa soltanto che è stato concepito all’hotel Negresco), ma da molto tempo abita a Roma, dove ha frequentato l’università. Si chiama Vince Corso e non è assassino (il titolo è in parte fuorviante): il suo lavoro consiste nell’indicare la lettura di un libro a chi ha dei problemi. I “clienti” sono tanti. I libri, pensa, possono curare, lui ne conosce tantissimi, anche se è convinto che «non ci sono libri che possano farci diventare quello che non siamo, ma a me è stato utile in varie occasioni».

A fine giugno trova accostata la porta d’ingresso della sua soffitta. La scoperta è dolorosissima: i ladri non hanno preso nulla, sul pavimento alcuni dei suoi libri, pagine stracciate e, soprattutto, il suo cane Django è sdraiato: è immobile e perde sangue. Non si lamenta se non altro perché è un cane muto. Ovviamente, Corso lo porta dal veterinario, dove lo intubano e lo fasciano. Giorni dopo, si accorge che all’altezza dell’orecchio c’è una stella, disegnata in modo frettoloso. E questo è il primo mistero. Corso, che abita in via Merulana (la via del Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda) ama camminare, incontrando gente strana, soprattutto ciechi. Passa ore intere seduto nell’ambulatorio veterinario. Spesso entra nella gabbia dove Django è immobile. Per accarezzarlo, commosso fino alle lacrime. Corso trascorre lì ore intere, osservando il via vai di persone che portano animali feriti.

A poco a poco, Corso si accorge che «davvero la letteratura per lui aveva cominciato a sostituirsi alla realtà». Ma si pone domande difficili per ragioni cui accenneremo dopo: «Il mondo esiste per davvero o è solo un’allucinazione?». Continua comunque a fare il suo singolare lavoro, pur sapendo che non sempre abbiamo le parole per dire tutto, ma che i sentimenti esistono senza di loro. Alla birreria Marconi viene avvicinato da una donna, Elsa. Che a Corso piace come gli piacciono tutte le donne che sanno sorridere. Elsa gli confida di non credere più alle parole e gli domanda se ciò è grave. Vince Corso ha modo di pensare alle parole che davano l’avvio ai libri e a quelle che li terminavano, e «a tutte le altre che cominciavano e finivano le storie degli uomini e che invece lo avevano deluso, giorno dopo giorno, come avevano deluso forse anche quella donna, seduta in una birreria, in una notte d’estate. E si chiede «con quali parole superstiti le avrebbe potuto descrivere il dolore che provava per Django, il suo cane». Elsa gli confida il desiderio di mutarsi in esseri vegetali, foglie, alberi, eccetera. Continuano a parlarsi e ad ascoltarsi. Alla fine a Corso viene in mente un libro riletto da poco e che racconta di una donna che voleva diventare un albero, ed è qui lo scandalo assieme alla descrizione di una famiglia che va in pezzi.

Una mattina presto Corso afferra le chiavi del suo motorino, scende le scale, saluta il portiere Gabriel, e si accorge che il suo scooter non c’è più. Un’altra effrazione. Gabriel, col quale parla spesso e a lungo, gli chiede se sa quel che è successo all’altezza di via Principe Eugenio. Corso risponde di ricordarsi l’accadimento, ma soprattutto degli occhi atterriti della conducente del tram, le cui ruote hanno tagliato di netto la testa di un uomo. Sì, lui c’era. Subito dopo va a San Giovanni a trovare Django e chiedere come procede la terapia. Si siede e aspetta, nessun miglioramento dello stato, quasi vegetativo, del cane. Nella sala d’attesa c’è l’aria condizionata. In quei giorni a Roma il caldo è torrido. Corso si chiede se è così che accade: «Qualcosa nella nostra vita ci porta dentro a una stanza dalla quale finiamo per non uscirne più».

Se ne va, imboccando vicoli e scorciatoie. Ripensa alla tragedia del tram e ricorda di aver letto che molti e molti anni prima l’Esquilino era un grande cimitero e che sopra ci avevano costruito le prime case. Quella zona di Roma, dove secoli prima venivano gettate le ossa degli schiavi, dei criminali e dei cani. Un campo «scellerato». Poi Corso, procedendo verso la Questura per la denuncia della razzia che avevano fatto a casa sua (molti vinili li aveva trovati a pezzi) e del furto del suo motorino, non scarta l’ipotesi che qualcuno lo abbia preso di mira. Avrebbe voluto confidarsi con la sua fidanzata Feng, ma in quel periodo è in Cina.

A un agente risponde alle domande di rito. Poi un poliziotto gli dice di andare nell’ufficio del commissario Francesco Ingravallo detto Ciccio (altra citazione gaddiana), il quale è incuriosito dal lavoro che fa Corso, al quale dice: «La teniamo d’occhio anche noi». Poi chiede se si sia trovato una certa domenica al mare, dalle parti di Torvajanica. Corso chiede la ragione di quella domanda, e il commissario risponde che in quel luogo è stato ucciso un arabo. Il suggeritore di libri conosce quell’incidente, ma aggiunge di aver letto la notizia sul Messaggero quando era in attesa del veterinario. Ingravallo non è per nulla convinto e aggiunge che sulla spiaggia c’era anche un cane, un randagio «che potrebbe assomigliare alla razza del suo». La perplessità del funzionario di polizia deriva anche dall’ammissione di Corso: sì, ero a Torvaianica, c’ero andato con la macchina dell’amico-portiere Gabriel. 

Ingravallo gli ricorda poi l’episodio del tram, Corso ammette di aver assistito, atterrito da quella morte: secondo lui è stato un fatale incidente. Il poliziotto controbatte che la sua testimonianza non coincide con quella di altri, secondo cui qualcuno ha spinto quel poveraccio, e qualcuno ha indicato Corso presente proprio lì.

Ingravallo, con un tono quasi confidenziale, gli fa presente che in piazza Vitttorio due mesi fa sono state massacrate due anziane donne nel loro appartamento. Corso lo sa, come sa che si era allontanato per via delle auto della polizia, ma decide di fare il finto tonto. Il commissario gli fa sapere che probabilmente si trattava di strozzinaggio. Ingravallo, che ha un’espressione malinconica, lo informa che sul collo delle quattro vittime è stata individuata una ferita a forma di stella. «U tempo è niro, e puzza di cacio». Il gran lettore di libri non sa a che cosa allude il suo interlocutore, il quale ammette che c’è una sequenza di cadaveri che presentano stranezze. «Non si allontani dalla città, ora vada pure».

E l’autore, Fabio Stassi, scrive: «Nonostante l’assurdità dell’interrogatorio appena subito aveva riconosciuto in quell’uomo, da tanti piccoli dettagli – la cadenza delle frasi, gli abiti che indossava e un certo imbarazzo dello sguardo – la pratica di una solitudine radicale non molto lontana dalla sua». Inevitabile anche a questo punto ricordare il Ciccio investigatore di Gadda, a via Merulana.

Ci sono altri incidenti mortali, alcuni dei quali efferati (sempre in piazza Vittorio), così come si fa minacciosa la presenza di ciechi con i quali Corso non riesce a parlare perché questi sgattaiolano alla svelta. Il romanzo procede con la scoperta di una setta di religiosi ciechi, decisa ad accecare con un pugnale rovente Vince Corso. A quel punto sbucano da dietro le tombe – la scena è il cimitero, dove riposano letterati di gran fama – alcuni agenti agli ordini di Ingravallo. Fabio Stassi mostra la sua bravura nel descrivere un’atmosfera impregnata di irreale, così come lo è il dialogo tra il poliziotto triste e il capo dei ciechi che vogliono sovvertire l’ordine del mondo giustificandosi con progetti deliranti. Don Ciccio sapeva già quanto stava accadendo, ma non aveva confidato nulla a Vince Corso. Gli ha però salvato la vita.

Il suggeritore di libri curativi riceve una telefonata dall’ambulatorio: Django ha superato ottimamente la lunga crisi. E abbaia, lui che era fino a quel momento è sempre stato muto. Chino sul tavolaccio-scrivania, Corso riprende la lettera al padre, così somigliante a quella scritta da Franz Kafka. «Carissimo padre, è una lettera definitiva – scrive Corso – quella che voglio scriverti. Una lettera impossibile per un destinatario inesistente. Mi hai dispensato dal confronto, e dalla concorrenza, e quindi dalla rivalità che dall’emulazione; eppure anche tu, come scriveva K. A un padre molto più ingombrante, sei stato per me la misura di tutte le cose. Esserti figlio è come essere stato figlio dell’assenza, appartenente, per genetica e destino, a una famiglia di spettri, avere instaurato con le ombre un vincolo di sangue. Ma la natura dell’ombra ha questa qualità: finché non si sa cosa nasconde, può contenere tutto». E ancora, più avanti: «La tua è la musica delle premesse, degli antefatti remoti: hai il sapore di una leggenda, sei un inizio che precede, il presagio di qualcosa che è già accaduto. L’alfa e l’omega di tutto». Frasi, quelle che seguono, fortemente struggenti. La lettera ha come destinazione l’hotel Negresco di Nizza, dove un giorno di molti anni fa un uomo uscì senza tornare indietro. Ignaro che un breve atto d’amore avrebbe avuto come conseguenza la nascita di un essere vivente e barcollante tra ombre, misteri, congiure e delitti.

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