Nando Vitali
Parole e ombre/5

Don Giovanni contagiato

«Tentò ancora qualche colpo di ariete prima di cadere da un lato del letto, sentendo l’ultimo respiro spegnersi dentro di lui, mentre lei, sommessamente, lo spingeva in un angolo lontano da lei»

Immagine di Sabrina Genovesi

Adesso che era morto gli veniva tutto più facile, soprattutto la contabilità.

Aveva vissuto intensamente, certo, col passaporto in tasca per un viaggio interminabile dentro al piacere. Ma per lui (ebbe il sospetto) era stato solo un veicolo illusorio, ora se ne rendeva conto, in verità non si era mai mosso. Lo spostamento, in cuor suo, soltanto un ciclo continuo fino allo sfinimento. In quel modo che hanno le filosofie orientali che poggiano il mondo su di un elefante, e poi su di un altro, e poi ancora su di un altro, fino a una scalata nel tedio infinito di una meta mai raggiunta: qualcosa di veramente insopportabile per lui che avrebbe voluto amare ed essere amato.

Si guardò intorno accorgendosi, nonostante quel senso di leggerezza dell’anima, di un ineffabile vuoto angoscioso, quasi di timore, di sentirsi fatto di materia fina. Soprattutto la vista. Sì, ora vedeva tutto con chiarezza millimetrica, lui che negli ultimi anni aveva per vanità evitato occhiali che lo avrebbero, secondo lui, invecchiato e imbruttito. Insomma era combattuto.

Poi, in un sobbalzo, che lo fece barcollare, si rammentò del catalogo!

La preziosa rubrica dove segnava ogni cosa affinché tutto andasse perduto per non perdersi mai veramente. Conosceva la vacuità e l’impermanenza, ma contava sul fatto che un occhio magico avrebbe lasciato aperta una porta governando gioie e tristezze, fallimenti e tragiche poderose strade di vittoriosi amplessi memorabili dopo aspri conflitti, proprio perché la sua agenda, il famoso catalogo, aggiungesse, un nome nuovo di donna.

Scese dal letto, con l’elasticità di un giovane atleta, avvertendo la luce che filtrava dalla gelosia, somigliante a una fresca lattuga su occhi appena risanati.

Tuttavia quella evanescenza confermò in lui l’idea che per gli uomini l’apparenza fosse l’unica forma reale di verità. E che la verità fosse una finzione rivelata. A volte spacciata, come in una suburra, per fresca illibatezza, simile a una giovane prostituta, e per questo così vero e sincero da commuoverlo, quando la donna si sforza con tutta se stessa per un godimento inesistente.

Come quella volta che volle concedersi una ulteriore variazione alla sua instancabile potenza amatoria. Anzi, onnipotenza erotica da vero ginnasta. Forza talmente prepotente da trascinarlo nelle sabbie mobili dell’indifferenza, quando negli accoppiamenti la dualità si fondeva in un unico atto copulatorio, dove l’altra era un riverbero di sé medesimo.

In quel pallore si specchiò. Nella levigata cicatrice che attraversava il viso della donna che forse aveva conosciuto l’oltraggio della bellezza assoluta che un uomo mai avrebbe potuto profanare, nonostante il colpo inferto, come chi avesse voluto violare il carattere sacro di un dipinto per renderlo vivo, dargli un valore aggiuntivo perché fosse unico. Ucciderlo per renderlo inimitabile, copia assoluta per il proprio narcisismo, fusione con l’oggetto d’amore.

Ma lo sfregio nulla aveva potuto contro la forma strana e rivoluzionaria di quella pelle che subito sarebbe ricresciuta in forma nuova e diversa.

Ogni donna è una chiesa lontana seppellita nel deserto dell’inimmaginabile.

Ne fu subito rapito.

Ricordava la stanza: una scatola nera dalla quale filtrava una luce breve da un lucernario in alto (una illusione ottica?), che sembrava spezzarsi in due nel momento in cui raggiungeva il letto ardente degli amanti come il più antico dei sepolcri. Gli parve anche rimbalzasse sulla capigliatura corvina della donna come a ferirla. Si sarebbe aspettato che sanguinasse. Nel sangue che relegato nel flusso venoso, può, a ben vedere, anche cercare un punto di uscita, come se la vita stessa anelasse a una naturale forma di dissoluzione per meglio esprimere il profilo migliore. Succede così nella voce che trova nell’incrinatura il suo punto di maggiore incantamento.

Fra i due si stipulò immediatamente un patto di mutua aggressione. Due predatori che pur sapendo di finire entrambi sconfitti non mollano la presa fino all’esito finale nefasto per entrambi.

Accadde per Achab con Moby Dick, dove al capitano dovette risultare del tutto superfluo la cattura della balena: l’importante era che il mostro lo trascinasse nell’abisso per dargli finalmente la pace che aveva ascoltato come un grido assordante nel cervello ammalato di solitudine. Solitudine che gli risultò di salvezza. Finalmente un silenzio totale nel quale immergersi senza rischio di giudizio o fraintendimento.

La donna dal volto pallido e i capelli corvini gli si diede con sazietà.

Lo complimentò, esagerandone i pregi per umiliarne i limiti. Si lasciò sotterrare dalla spinta del suo sesso subendone i colpi sapendo che insieme a quel movimento dapprima lento, poi via via spasmodico, le molecole dell’uomo si disperdevano per sempre. Il cinico rapporto di penetrazione all’incontrario, dove la parte offesa si mangiava l’oppressore in un gemito malriuscito, fasullo, e per questo più credibile alla vanità di lui.

Nell’invogliarlo risvegliava la tarda età di lui, che lo sgomentava come ci si offende per qualcosa che ci dicono sapendo che è proprio là, in quell’affronto al nostro amor proprio, che si rompe l’ipocrita compromesso che facciamo con noi stessi. L’insulto che ci è dato lo subiamo soltanto in apparenza, perché chi lo pronuncia, ci rivela una nuova intimità quadrimensionale. Piacere tante volte ottenuto solo per contabilità che però quella volta tardava a venire, e l’uomo iniziò ad ansimare, boccheggiando come una fisarmonica a cui avessero perforato il mantice. Il musicista stenta a riconoscere il suono fesso, impudente, perché proveniente dalle sue stesse mani, allenate, temprate, dalle quali, ora, si riverbera un difetto di dileggio che ne turba l’orecchio… si rifiuta di accettarne l’irrisione.

Da uno specchio ovale posto in un punto in alto, tanto da cadere nel rimbalzo su di lui, di soprassalto, in un brusco dietrofront del collo, vide il suo sedere magro perdere i colpi fra i fianchi della donna.

Vieni amore, gli diceva la megera, con voce roca che sapeva di sconfitta, se non di pena, per il prode amatore di un tempo. Quando l’uomo la guardò stupito, sgomento, negli occhi neri di lei osservò la forma viva di un animale che da preda si muta in virus letale dalla mutazione enigmatica.

Il suo respiro si fece affannoso, e un rumore oscuro proveniva dalla bocca di lei, anima nascosta dell’arte amatoria, quando prima del disgusto della disfatta della vittima, l’euforia della vendetta era infine compiuta. La donna aveva ingoiato il guerrigliero dei numeri, l’uomo che aveva avuto libero accesso in tutte le più impenetrabili porte dell’amore.

Il nitore neoclassico del suo viso, il latteo candore che più risaltava sul nero della capigliatura, il taglio sulla pelle, gli parvero vestibolo irrevocabile di una tensione che si era sempre più allentata, mentre le gambe si indebolivano come se egli stesso si dissolvesse. Tuttavia tentò ancora qualche colpo di ariete prima di cadere da un lato del letto, sentendo l’ultimo respiro spegnersi dentro di lui, mentre lei, sommessamente, lo spingeva in un angolo lontano da lei.

Adesso che era morto, don Giovanni, finalmente aveva trovato in un cassettone tormentato dalle macchie dei tarli, alacri lavoratori del legno di noce, in particolare la cassettiera istoriata di ornamenti floreali, il prezioso catalogo.

Don Giovanni, completamente nudo, lo sfogliò.

Vide l’ultimo numero, l’ultima donna posseduta inserita nella casella 2019.

Tante erano le donne che nella sua vita di straordinario falegname del sesso aveva accumulato. L’ultima casella da riempire era dunque la casella numero 2020. L’ultima donna amata nell’alcova quadrata dallo specchio ovale. Quella dal volto eburneo e i capelli di pece era stata la “madama” che non avrebbe mai voluto incontrare, attaccato alla vita in quel vano inseguimento del godimento.

Puntò il dito sulla casella del catalogo dal quale colò un inchiostro denso e oleoso. La donna dal viso di spettro, dal volto pallido di marmo e i capelli corvini. Sì, proprio lei! La madama quella alla quale aveva dato piacere senza riceverlo, risucchiandolo, invece, nella terra delle tenebre estreme, e della luce in eccesso, dove vedi alla perfezione quello che sei stato, l’inutile tempo dell’amore e il polipo tentacolare che nulla aveva saputo afferrare.

Don Giovanni. Il grande seduttore che adesso riempiva l’ultima casella, soltanto ora capiva con chi si era accoppiato.

La Morte!

Mentre guardava se stesso immobile nel letto, fra le lenzuola rivoltate in un groviglio di spine.

Proprio allora entrarono lugubri monatti, con cappuccio nero, commentando quell’anno maledetto, il 2020, ma fruttuoso per loro.

Sollevarono il suo corpo come se fosse una deposizione, e lui, don Giovanni si vide scivolare via, dissolvendosi per sempre.


Nando Vitali è scrittore, editor, conferenziere, docente di scrittura e lettura creativa. Ha collaborato con Il Mattino di Napoli e Il Manifesto. Attualmente collabora con il quotidiano La Repubblica. Conduce il laboratorio di scrittura e lettura creativa L’isola delle voci. Principali pubblicazioni: “Quasi un dizionario. Scritti e saggi di Luigi Compagnone. (A cura di, Compagnia dei trovatori). Chiodi storti. Da Ponticelli a Napoli Centrale, romanzo (Compagnia dei trovatori, Premio Molinello). Effetto domino, “10 autori in cerca di un romanzo”, romanzo collettivo a cura di P.A. Toma (Treves). I morti non serbano rancore. Foibe. L’avventurosa storia del Capitano Goretti (Gaffi, 2011). Bosseide. La fascinazione del male (Gaffi, 2015, dal romanzo è stata realizzata una trasposizione teatrale a cura di P. Celentano, con M. Masiello, C. Capano, G. Cerino. Museo Filangieri di Napoli). Ferropoli, romanzo (Castelvecchi, 2017, Premio Tommaso D’Aquino per la narrativa 2018). Polvere per scarafaggi, racconti (Ad Est dell’equatore ed. 2019). Chiodi storti. Da Ponticelli a Napoli Centrale (nuova edizione, Iod editore, 2020). Presente nel volume Non sarà il canto delle sirene (Iemme ed). Presente con saggi e racconti in numerose antologie e riviste (Nuovi Argomenti, Succedeoggi…). Ha fondato e dirige la rivista letteraria Achab. (Ad Est dell’equatore ed.).


Sabrina Genovesi nata a Roma nel 1973, vive e lavora a Roma. Laureata in Scienze dell’educazione, si forma nel campo della fotografia a Milano con la Scuola “Donna fotografa” e, a Roma, ad Officine Fotografiche. Principali mostre: 2013: Da donna a Donna, Casa internazionale della donna , Roma 2016/17/18/19: Il mostro #4; Il mostro #7; Il mostro #8; Il mostro #9; Il mostro #10; Il mostro #11; Il mostro #13, TAG, Roma. 2017: Album Di Famiglia – Terzo Progetto Portfolio, Galleria Gallerati, Roma. 2017: I Sette Mostri di Arles, MaMo Temporary Gallery, Arles. 2018/19: Il Mostro – Les Montres se montrent, MaMo Temporary Gallery, Arles. 2018 “Parole e Ombre – 21 racconti per 21 artisti”, TAG, Roma. 2019 Blu mare (personale), Fare Fotografia, Roma. 2019: Fuori 8, Galleria Gallerati, Roma. 2019: Todimmagina, Festival di Fotografia Contemporanea di Todi. 2019: DonnaxDonna – Help yourself with information, Grand Hotel Plaza, Roma. 2020: La neve a Roma 2012- 2018, Assemblea Testaccio, Roma.

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