Raoul Precht
Periscopio (globale)

L’abiura di Andrić

Una piccola casa editrice, Bottega Errante Edizioni, pubblica “La vita di Isidor Katanić” di Ivo Andrić: un'occasione preziosa per riscoprire il grande scrittore balcanico che riuscì a non aderire mai fino in fondo al conformismo jugoslavo

Una volta tanto, anziché dall’autore cominciamo, per dirla in gergo cinematografico, dal produttore esecutivo. C’è, in Friuli, una piccola casa editrice, nata, come spesso succede, quale costola, resasi poi autonoma, di un’associazione culturale, che in appena cinque anni di vita è diventata un punto di riferimento assoluto per la letteratura balcanica e ne ha pubblicato alcuni autori di notevole rilievo, fra i quali, oltre al premio Nobel Ivo Andrić, vanno ricordati almeno Slavenka Drakulić, Meša Selimović, Miljenko Jergović, Božidar Stanišić, Ivica Đikić, Rumena Bužarovska e Bronja Žakelj. Nomi, questi, che non sono ancora familiari al lettore italiano, ma che potrebbero presto diventarlo, se la pandemia non influirà troppo sulle attività della nostra editoria in generale e di questa casa editrice in particolare, che si chiama (non l’ho ancora detto) Bottega Errante Edizioni (o BEE, per gli amici).

BEE si occupa di letteratura balcanica, dunque, colmando una lacuna evidente nella nostra editoria, ma non solo: c’è anche un nutrito drappello di scrittori italiani, cui si è aggiunto ora anche l’inviato speciale Paolo Rumiz, impegnati a raccontare e descrivere il dialogo possibile e anzi necessario fra il nostro paese (e il Friuli in particolare) e la realtà dei paesi sorti dal collasso dolorosissimo dell’ex Iugoslavia e dalla guerra intestina.

Fra i libri che BEE ha pubblicato quest’anno ho scelto un piccolo capolavoro, La vita di Isidor Katanić di Ivo Andrić, che mi auguro non sia passato e non passi troppo inosservato. Dico subito che, non conoscendo la lingua dell’originale, non sono in grado di disquisire sulla traduzione dal serbo di Alice Parmeggiani, il cui risultato finale mi sembra però del tutto valido dal punto di vista del lettore italiano, poiché ricorre a un linguaggio asciutto, senza fronzoli ma estremamente efficace.

Da segnalare solo il plurale saltato di una parola tedesca (Ausweise), e la numerazione continuativa, probabilmente non imputabile alla traduttrice, delle note a piè di pagina, tanto nel romanzo quanto nell’interessante postfazione di Božidar Stanišić, numerazione che personalmente trovo fastidiosa. Ma sono davvero delle inezie, a fronte di una resa stilistico-formale del tutto rimarchevole.

Nel 1948, nel pieno di una crisi creativa ed esistenziale che lo porta ad allinearsi stilisticamente alle più viete posizioni del realismo socialista, Ivo Andrić tira fuori dal suo cappello da prestigiatore un racconto lungo (o romanzo breve, a scelta) che si situa in perfetta controtendenza rispetto alle altre narrazioni dello stesso periodo. È una mia liberissima interpretazione, si badi bene, ma mi sembra che questo racconto, La vita di Isidor Katanić (nell’originale Zeko), possa aver rappresentato una specie di contrita abiura degli altri testi ad esso contemporanei e al tempo stesso un messaggio di Andrić al lettore, quasi a volergli significare che la diritta via non era andata del tutto smarrita e che era ancora perfettamente in grado di scrivere racconti di alto livello.

Ivo Andrić

Storie comparabili, cioè, ai grandi romanzi usciti solo tre anni prima, come Il ponte sulla Drina, ambientato a Višegrad, in Bosnia, dove Oriente e Occidente confluivano – di qui, anche, la fortunata metafora del ponte che accompagnerà Andrić per tutta la sua vita di scrittore – e La cronaca di Travnik. (Travnik, per inciso, è la città natale di Andrić ed era stata capitale della Bosnia ottomana fra il XVII e il XIX secolo.)

Nel racconto in questione Andrić ci parla anzitutto di paura; non in astratto, o non solo, bensì, direi, con la concretezza di chi descrive con realistica precisione fenomeni come guerra e occupazione. Il protagonista, Isidor Katanić, che tutti però chiamano zeko, ovvero coniglio (di qui il titolo originale, ma anche il peculiare colore della narrazione), è un uomo neutrale, disimpegnato e piuttosto pavido che si ritrova incastrato nell’ingranaggio stritolante della storia e deve in qualche modo far fronte a nuove responsabilità, derivanti dalle azioni che il destino gli chiede improvvisamente di eseguire.

Nel testo la paura è ovunque: paura di esporsi, paura dei cattivi incontri, paura di ciò che penserà la gente, paura, anche fisica, di una moglie-virago, paura di un figlio che Isidor non capisce e in cui non può riconoscersi, paura di essere sorpresi nel sonno da un bombardamento o da un incendio, e dunque perfino paura del sonno e del riposo. Ma Isidor non è il solo, soprattutto nella seconda parte della storia, a vivere in uno stato di perenne timore. Con una bella metafora Andrić scriverà di Vule, uno dei giovani capi del movimento di liberazione: “Dietro di lui rimase qualcosa della sua irrequietudine, come la scia dietro a una veloce barca a motore.” E questa irrequietudine attraversa come un filo rosso l’intero racconto.

Ma cominciamo dalla figura della moglie di Zeko. Se normalmente nella narrativa di Andrić le donne subiscono il predominio maschile, com’è del resto nella tradizione sociale, e non solo di quella delle famiglie balcaniche, qui eccezionalmente Margita (non a caso soprannominata Kobra, così come il figlio sarà chiamato Tigar) è una donna fortissima, una virago che domina non solo il marito, ma tutto l’ambiente che la circonda, plasmando il debole figlio a propria immagine e somiglianza, comandando i suoi simili a bacchetta, trattandoli dall’alto in basso e pretendendo, in particolare dagli inquilini degli appartamenti di cui è proprietaria e che gestisce, la piena obbedienza.

Il matrimonio è naturalmente uno dei problemi di Isidor, se non il principale: uomo del tutto ordinario – un semplice impiegato all’Ufficio delle onorificenze reali – si trova a vivere, nella Belgrado dell’entre-deux-guerres, una situazione del tutto straordinaria. Isidor è debole, perfino tenero, a volte disarmante nella sua ingenuità, del tutto inerme e impreparato alle asperità della vita, compresa quella coniugale (uno zeko, appunto) e non è quindi troppo sorprendente se in tutta la prima parte del racconto assistiamo a un suo progressivo declino. Eppure, Isidor è al tempo stesso un personaggio dotato di potenzialità che sembra aver fatto di tutto per sabotare; ignorando e umiliando le proprie doti artistiche si è ridotto a lavorare come semplice calligrafo. Incompreso in famiglia – anche il rapporto con il figlio, superficiale e arrogante, è inesistente – si è ridotto a vagare per la casa come un’ombra, murato in un silenzio prudente e risentito che gli impedisce qualunque dialogo con l’esterno.

La sua unica strategia di sopravvivenza è quella della dislocazione, della fuga: assistiamo allora a un primo tentativo, che consiste nel trascorrere quanto più tempo possibile sulle sponde del fiume di Belgrado, la Sava, dove si dà appuntamento un’umanità varia e inclassificabile, ma aliena da ipocrisie, e dove Isidor trova almeno degli interlocutori con cui scambiare opinioni e interagire. Il secondo luogo dove Isidor ama rifugiarsi è la casa della cognata Marija, di cui si era platonicamente invaghito in passato, e sarà proprio il rapporto stretto con Marija e i figli di questa – quella che lui considera la sua vera famiglia – a spingerlo finalmente all’azione quando le circostanze esterne lo richiederanno, quando cioè l’occupazione della città da parte delle truppe tedesche e poi la guerra faranno saltare tutte le sue autodifese psicologiche e lo spingeranno a compiere atti quasi involontariamente eroici.

Occorre specificare che in nessun momento del racconto vi sono segnali di una possibile conversione ideologica del protagonista. La trasformazione di Isidor non è dovuta a una vera e propria presa di coscienza politica – anche se a certe figure di studenti impegnati nella Resistenza, prima fra tutte la nipote Jelica, guarderà con evidente simpatia –, ma deriva dalla necessità di superare la paura e di trascendere i propri stessi limiti, di cui è perfettamente consapevole, mettendo finalmente a frutto le sue doti artistiche e trasformando la calligrafia in uno strumento di lotta clandestina che gli consentirà di falsificare documenti.

Andrić (ed è questo uno dei suoi punti di forza) non fa di Isidor una bandiera, un “eroe socialista”, ma lascia che l’eroismo fluisca naturalmente dalla concatenazione di eventi di cui Isidor sarà anzitutto testimone. Isidor finisce dalla parte giusta, quella di chi combatte i tedeschi, quasi per caso, e senza alcuna illusione rispetto a quanto potrà avvenire in seguito; nel racconto non c’è traccia di celebrazione dei liberatori, e tanto meno del potere comunista che si sarebbe in seguito insediato. Sembra quasi che la celebre quanto icastica formula di Sciascia – “nella misura in cui ha coscienza del passato [Andrić] vive e sente il presente e ha fede nell’avvenire” – si applichi a questo misurato racconto perfino più che ai grandi romanzi.

Si è parlato spesso, per tentare di incasellare uno scrittore difficilmente classificabile come Andrić, di realismo psicologico di ambiente urbano. (E sia, anche se è una formula che gli va stretta.) In effetti, l’altro grande protagonista del racconto, accanto all’animo di Isidor, è indubbiamente la città di Belgrado, colta nelle sfaccettature più varie, da grande osservatore, con delle descrizioni che pur nell’economia di mezzi stilistici risultano estremamente precise e convincenti. Belgrado diventa anche il simbolo di quel mondo serbo, croato, bosniaco, multietnico (pur con tutte le complessità e gli scontri che ciò comporta) di cui Andrić è stato uno degli interpreti più fortunati ed equilibrati.

Impegnato fin da giovanissimo nel movimento irredentista serbo, che promuoveva l’unione di serbi e croati contro l’Austria che nel 1908 si era annessa la Bosnia-Erzegovina, membro della Giovane Bosnia, fautore anche durante gli anni di studio a Vienna dell’unità iugoslava, nel 1914 Andrić verrà arrestato per “attività antistatale” e rilasciato qualche mese dopo anche in considerazione delle sue condizioni fisiche (si era ammalato di tubercolosi). L’attività politica dello scrittore continuerà anche nel primo dopoguerra quando, creata la Iugoslavia, si avvicinerà sempre di più alle posizioni dei nazionalisti serbi e comincerà un’attività diplomatica che lo porterà, nel momento peggiore, l’inizio degli anni ’40, a essere nominato ambasciatore a Berlino. Lì, nel 1941, dovrà partecipare fra l’altro alla firma del Patto tripartito con cui la Iugoslavia prometteva sostegno a Italia, Germania e Giappone. Quando pochi mesi dopo, a seguito di un colpo di stato, la Iugoslavia si ritirerà dal patto, Hitler deciderà d’invadere il paese e Andrić verrà ricondotto a Belgrado, praticamente agli arresti domiciliari, dopo aver rifiutato un salvacondotto per la Svizzera che non sarebbe stato esteso al resto del personale dell’ambasciata.

Tra il 1941 e il 1944 sarà ospite di un amico e si dedicherà unicamente alla stesura dei suoi romanzi, praticamente murato in casa, evitando di partecipare a qualunque manifestazione politica. A questo proposito è interessante la teoria, avanzata dallo studioso Dušan Puvačić, secondo la quale Andrić avrebbe immaginato la figura di Isidor e la sua nemesi in contrapposizione con il suo personale, distaccato comportamento durante la guerra: nome e cognome di Isidor sarebbero l’anagramma di isti kao Andrić, ovvero “identico ad Andrić”, il che farebbe del pur timoroso Zeko una specie di alter ego migliorato dello scrittore.

Per chi volesse approfondire l’opera di Andrić, in italiano, oltre ai più famosi romanzi Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik, editi da Mondadori e confluiti poi nel Meridiano (Romanzi e racconti) dedicato allo scrittore, BEE ne ha pubblicato anche In volo sopra il mare, pregevole silloge di osservazioni e riflessioni sul mondo da parte di un viaggiatore instancabile. Viaggiatore aperto al mondo e curiosissimo di altre civiltà, come dimostra anche il suo lavoro di mediazione linguistica (Whitman e Strindberg tra gli scrittori da lui tradotti), che ha svolto con instancabile determinazione lungo tutta la sua carriera di letterato, trascorsa prevalentemente in solitudine.

Andrić è stato descritto infatti da tutti come una persona ritrosa, aliena da qualunque forma di pubblicità personale, divenuta probabilmente, con il passare degli anni, e dopo gli entusiasmi giovanili, molto diffidente nei confronti delle evoluzioni (o involuzioni) politiche. Questo non lo ha preservato da maldicenze e attacchi, portati avanti appunto da questa o quella parte politica, in Bosnia come appena ieri nella Croazia di Tuđman, ma ha fatto sì che il suo lascito letterario, di grande scrittore immerso in un perenne dubbio kierkegaardiano, ci appaia sempre più inattaccabile.

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