Flavio Fusi
Italia a cinquestelle

La faccia di Di Maio

Il ministro Di Maio, abbronzatissimo, gioca con il razzismo e il New York Times gli ricorda che «negli Usa chi scherza sul blackface si dimette o viene licenziato». Ma in fondo anche Berlusconi scherzava con l'"abbronzatura"...

Succede che un ministro giovane e spensierato trascorra il suo meritato riposo estivo saltabeccando in pieno sole tra yacht, motoscafi e spiagge alla moda in allegra e accaldata compagnia. Succede poi che quando il giovane ministro torna al lavoro – per dire: un incontro con il suo potente omologo cinese a Roma – appaia strinato dal sole, nero e croccante come un biscotto dimenticato nel forno.

E quando si spalanca puntuale la fogna dei social, con commenti offensivi e misere battute all’insegna del doppio senso razziale, è lo stesso ministro – o meglio la sua potente task force – a partecipare alla sagra dello sghignazzo, rilanciando con commenti benevolmente ironici alcuni post particolarmente grevi, come la faccia dipinta di nero di Totò nell’antico film TotòTruffa.  

«Ragazzi – commenta il ragazzo Di Maio – grazie per avermi reso questa giornata più leggera». Appare spiritosa all’entourage del ministro questa tenzone social a colpi di nero e più nero, come erano considerate spiritose cinquanta anni fa le quotidiane gare di “rutti” nei nostri beati e inconsapevoli anni del liceo.

Così, abbiamo un ministro che partecipa alla gara dei rutti. Ma la questione – come ha spiega con misura e pazienza la scrittrice italo-somala Igiaba Sciego nella newsletter di Domani, il quotidiano diretto da Stefano Feltri che sarà in edicola tra pochi giorni – è ben più seria e complessa. Il ministro di Maio è inciampato in una seria pratica di segno razzista, che in America definiscono blackface: il vezzo cioè di dipingersi la faccia di nero e indossare il colore dell’altro per ridicolizzarlo: pelle troppo scura, labbra esagerate, balbuzie nel parlare. Così, una volta negli Stati Uniti gli attori bianchi si truccavano per interpretare gli schiavi neri, o meglio la caricatura degli schiavi neri.

«Rendere i nostri corpi ridicoli significa offenderli, mortificarli», ricorda Igiaba Sciego all’inconsapevole ministro, e dunque non c’è nulla da ridere. Ben più severo, un articolo del New York Times ricorda a Di Maio che «negli Stati Uniti chi scherza sul blackface si dimette o viene licenziato».

Calmi, nessuno verrà licenziato, né ammonito, né rampognato. E poi, nei dintorni della Farnesina, qualcuno avrà letto il commento della scrittrice o la sferzata del giornale americano? Sinceramente, sarebbe pretendere troppo in un Paese che per venti anni ha sghignazzato alle battute di un vecchio miliardario gaffeur, appassionato di anatomia femminile.

Era il lontano novembre 2008 nelle austere stanze del Cremlino, e il cronista ricorda ancora la ventata gelida che scese su diplomatici e giornalisti, quando un ilare Berlusconi, reduce dal faccia a faccia con Barak Obama, definì il presidente americano «giovane, bello e abbronzato». «Tanned!», scandì l’interprete, e il presidente russo Medvedev guardò smarrito il sorriso ammiccante dell’ospite italiano. Mancava darsi di gomito, fare occhiolino, e l’italica macchietta sarebbe stata completa.

Dunque, perché stupirsi degli inciampi di un ministro degli esteri senza esperienza e conoscenza? Washington, Pechino, Berlino e anche Mosca se ne faranno una ragione. Perché queste sono solo canzonette, e così funziona l’eterna commedia italiana: Giovannona coscia lunga, la supercazzola fiorentina, il dottor Terzilli medico della mutua («Sì dottò, rutto e scureggio…»). 

Del resto ci ha pensato il portavoce del ministero, Augusto Rubei, a mettere le cose a posto con alleati, critici e concorrenti: «Una polemica nata dal nulla. Di Maio non si è dipinto la faccia di nero, era davvero abbronzato…». E ci mancherebbe, dottor Rubei, ci mancherebbe…

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