Andrea Carraro
Diario di un incontro

Viaggio nel realismo

"San Michele aveva un gallo" è il film che meglio incarna il "realismo etico" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani. Nei loro film c'è sempre un rapporto perfetto fra realtà e Storia per coniugare piacere estetico e senso critico

Alcune ragioni mi fanno sentire vicino il cinema dei fratelli Taviani, di cui ho rivisto di recente fra gli altri San Michele aveva un gallo (1972), forse il loro capolavoro, dove ritroviamo molti dei loro peculiari motivi di ispirazione: la grande letteratura (il film è ispirato a un racconto di Tolstoj – Il divino e l’umano), e la riflessione sull’utopia rivoluzionaria (l’impegno politico), sotto l’insegna del realismo, – di un realismo mai piattamente naturalistico, o naif, con frequenti incursioni/aperture oniriche, irrazionalistiche, visionare, “magiche”, (per Le notti di San Lorenzo si parlò di realismo magico). Io preferisco parlare, per i fratelli Taviani, di “realismo critico” o di un “realismo etico”, come mi è capitato di dire lo scorso anno a una rassegna di cinema restaurato curata dal critico Alberto Crespi che si svolge ogni estate a Narni. Un realismo attraversato dalla Storia, quello dei Taviani, che presuppone uno “spettatore attivo”, consapevole, disposto a mettersi in discussione. I temi dell’ideologia politica, dell’utopia rivoluzionaria, sono davvero tipici del loro cinema fin dai tempi de I sovversivi. che, ricordiamolo qui en passant, raccontava di un gruppo di militanti comunisti diretti al funerale di Togliatti, durante quel grande evento collettivo, siamo nel 1964, che si svolse a Roma.

San Michele racconta invece il fallito tentativo insurrezionale di un gruppo di internazionalisti anarchici nel 1870, fra le quinte di un classico paesino umbro, Città della Pieve, scosceso, arroccato su un’altura, – capeggiati dal matematico Giulio Manieri, giovane affascinante, un ex possidente di origini borghesi votato alla causa rivoluzionaria, che, per il fallimento del suo velleitario tentativo di insurrezione, viene arrestato e condannato a morte. Ma poi la condanna – proprio all’ultimo momento – viene commutata in carcere a vita soltanto per caso, per un capriccio della figlia del governatore, rimasta forse impressionata dalla sua bellezza e dal suo coraggio. Il protagonista, Giulio Brogi, grande attore morto nel 2019, che ha lavorato, oltre che coi fratelli Taviani, anche con altri grandi registi (Angelopoulos, Cavani, Bellocchio, Mazzacurati, Bertolucci, Olmi…) qui in una delle sue più significative interpretazioni, fiero del suo ruolo di martire della rivoluzione, viene condotto in carcere, e la detenzione, in isolamento completo, dentro una angusta cella, privo di tutto, anche della possibilità di scrivere,  è raccontata con monologhi spezzati, ellittici, che sono anche dialoghi immaginari coi suoi compagni di lotta interpretati dallo stesso Brogi, che cambia di volta in volta posizione e atteggiamento e mimica nella piccola cella per calarsi nei panni di questo e di quell’altro. “Questa è stata la parte forse più difficile, – ha confessato Paolo Taviani durante la presentazione del suo film, e poi dopo, davanti a un buon rosso locale, in un ristorante di Narni Scalo, insieme al critico Alberto Crespi e a un giovane assessore, Lorenzo Lucarelli, un po’ intimidito dal Maestro, – all’inizio eravamo bloccati, poi alla fine abbiamo trovato la chiave giusta per raccontare quel silenzio, quella immobilità, quella mancanza di azione, pensando di essere là dentro proprio noi, io e Vittorio,  fisicamente reclusi, cioè, metaforicamente impossibilitati a fare il film, proprio come eravamo rispetto alle difficoltà produttive che stavamo attraversando”. 

Brogi/Minieri incarna la personalità ardente, fanatica e ingenuamente narcisistica del giovane rivoluzionario, che vorrebbe morire da eroe, da martire, che immagina per se stesso la gloria futura, che usa la stessa segregazione come esercizio per il rafforzamento delle sue idee, proprio come nel racconto di Tostoij a cui i Taviani si sono ispirati: «Quando finì il periodo di reclusione e venne deportato, – leggiamo nel racconto del grande russo, che non è stato facile da trovare in formato cartaceo – Meženetskij aveva un aspetto florido, sano ed era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali”. Lì il carcere era la spaventosa fortezza di Pietro e Paolo nella cittadella di San Pietroburgo, dove troviamo anche un secondo personaggio importante, un vecchio contadino scismatico in prigione in attesa della deportazione in Siberia…

Ma torniamo al film. “Sì, non fissarti sul racconto, che ora neppure ricordo più francamente. Il film era un’altra cosa. A noi ci interessava il presente, il nostro presente di allora, primi anni 70, la realtà della sinistra in quegli anni”. Dopo 10 anni di detenzione in assoluto isolamento, durante il trasferimento verso un altro carcere, in un isolotto della laguna veneta, il protagonista, ammanettato, vede sfilare accanto alla lancia dove si trova, un’altra imbarcazione carica di giovani prigionieri politici – dei rivoluzionari più giovani (la nuova leva) che lo riconoscono (a fatica) e intavolano con lui un dialogo politico molto significativo, polemico, serrato, in cui lo contestano, contestano i suoi metodi di lotta, ch’essi giudicano ormai utopistici e obsoleti…  lui si accorge di essere ormai superato, fuori della Storia, e si lascia cadere dalla barca annegando nella laguna; questo breve scambio doveva evidentemente suggerire anche lo scontro fra posizioni (anime) diverse all’interno della sinistra, che diventeranno presto drammatiche con l’esplosione terroristica e gli anni di piombo…. “Le difficoltà produttive fecero slittare il film trasformandolo giocoforza in una riflessione successiva al movimento rivoluzionario del sessantotto, già una interrogazione sulle ragioni della sconfitta”. È affascinante di questo film la precisa, quasi geometrica, scansione in tre sezioni di una mezzora ciascuna, diversissime da un punto di vista filmico, espressivo, l’una dall’altra: glielo dico e lui pare soddisfatto che io l’abbia notato, e aggiunge: “l’insurrezione fallita nella prima mezz’ora, poi nella seconda, la detenzione, la parte statica, infine il trasferimento nella laguna veneziana con il finale suicidio dell’eroe. All’inizio il racconto è corale, e vi prevale l’azione, segue la detenzione statica, ma movimentata dalla fantasia di Minieri, dal teatro ch’egli mette in scena, poi, terzo atto, di nuovo sotto il segno dell’azione, nella barca navigante sulla laguna, il dialogo chiarificatore con i giovani rivoluzionari dell’altra barca, cui segue il suicidio”.

“Il tragico è la naturale conclusione, insomma, chiude un percorso preciso del personaggio, con la sua definitiva presa di coscienza, proprio com’era in Rossellini, – si pensi a Germania anno zero, che si conclude ugualmente con il suicidio, in mezzo al panorama di macerie della Berlino bombardata”. Ma si pensi anche al finale in mezzo al grano, de La notte di San Lorenzo, con lo scontro fra la resistenza e i fascisti, e la tragica e spettacolare morte del giovane fascista, che una bambina presente a quello scontro fratricida, colei che sta ricordando quell’evento drammatico e sanguinoso della sua infanzia, immagina, in una specie di sogno a occhi aperti, attraversato da innumerevoli frecce lanciate da arcieri achei, una specie di San Sebastiano inginocchiato trafitto dalle frecce, che divenne anche l’efficace manifesto del film.  

Durante il ritorno a Roma in automobile il Maestro ogni tanto sonnecchia, poi parla del fratello, che deve mancargli molto, mi racconta come se n’è andato: “Tre anni fa, dopo una cena in casa di amici, uscendo in pieno centro a Roma, Vittorio fu investito da un’auto. sentì un grande colpo alla schiena, quello che sembrava un incidente non così grave, innescò problemi neurologici su un fisico già provato da altri malanni.”. Mi chiede di mio figlio che studia sceneggiatura, un dettaglio che l’aveva colpito a cena, si informa del mio ultimo libro. Io provo a spiegare, gli prometto di mandarglielo, ma lui di nuovo sonnecchia… ma prima di arrivare fa in tempo a tornare su Volonté di cui aveva parlato a lungo a cena, sollecitato da me o da Alberto, che era “geniale e stronzo, l’uomo più stronzo che abbia mai conosciuto! Durante le riprese di un nostro film, sparì improvvisamente, non si faceva trovare, lo cercammo dappertutto, anche nel suo Buen retiro della Maddalena, dove si andava a rifugiare ogni tanto, alla fine andammo a casa sua a Roma, semplicemente, venne ad aprire la donna con cui stava, non ricordo chi fosse allora, e disse che lui non c’era, ma lui c’era, era nascosto in camera da letto, quel figlio di puttana, ma non veniva fuori! Noi dall’ingresso urlavamo: “Gian Maria vieni fuori, lo sappiamo che ci sei…” Non ci fu verso, non si fece trovare e noi lo dovemmo all’ultimo momento sostituire”. Il film in questione era Padre Padrone, e il suo ruolo fu affidato al grande Omero Antonutti che ne fece un grande personaggio che si scolpì nel nostro immaginario. Su questo siamo tutti d’accordo, anche Alberto Crespi che intanto, dal suo posto davanti, guida con discrezione la conversazione, come ha fatto tutta la sera. Purtroppo anche Omero Antonutti, grande amico loro, interprete di vari loro film (pure Kaos e La notte di San Lorenzo…), morto da poco, forse appena qualche mese dopo quel nostro incontro.  

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