Mario Di Calo
Al Napoli Teatro Festival

Silvio e Momò

Finalmente si torna in scena e in platea! Nel cortile di Capodimonte Silvio Orlando ha messo in scena una sua personalissima - e assai riuscita - versione scenica del romanzo "La vita davanti a sé” di Romain Gary

Sensazioni, emozioni a mille nel ritrovarsi di nuovo in una platea, sedere fra un pubblico di sconosciuti, seppur con distanziamento, un totale di settanta posti opportunamente inchiodati al suolo, per evitare qualsiasi furtivo avvicinamento congiunto. Da quel lontanissimo 9 marzo quanto tempo è passato? Interminabile, eppure parliamo di una manciata di mesi. Sembrava non fosse più possibile e le tempistiche per una normale ripresa, al momento, per i teatranti non sono delle più rosee. Chissà perché? Ragioni chiare a molti i quali, evidentemente, nutrono poco interesse per chi il teatro lo finanzia e sostiene. E io, con piacere e volentieri, ritorno a quelle vecchie, lontane abitudini, ritenendolo buon auspicio, con uno spettacolo originale e struggente al tempo stesso, che vede protagonista assoluto Silvio Orlando nell’adattamento teatrale del romanzo di Romain Gary (pseudonimo di Roman Kacev) La vita davanti a sé, pubblicato in Italia da Neri Pozza, premio Goncourt1975.

Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale, sabato 4 luglio, nel Cortile della Reggia di Capodimonte, all’interno del Napoli Teatro Festival edizione 2020. Contrastata e sofferta edizione, fortunatamente sta vivendo giorni felici, prendendo forma in volteggi speranzosi.  

Adattatore, regista, musicista e anche stravagante danceur (sulle note di Comment te dire adieu) nonché coinvolgente e appassionato protagonista, che lo vede interprete del personaggio/narratore Momò. Silvio Orando partendo dall’edizione italiana, mette su una delicata, coinvolgente riflessione sull’infanzia, abbandonata, tradita, violata inducendo l’adulto a responsabilità disertate.

La storia appunto è quella del quattordicenne Momò, diminutivo di Mohamed, figlio di puttana, allevato da Madame Rosà in uno stabile di sette piani (loro ne occupano simbolicamente proprio l’ultimo). Figlio di puttana nel senso che la donna che lo alleva, in cambio di un assegno mensile, si prende cura di piccoli marmocchi generati incautamente da quelle venditrici di culo, della cui potente squadra faceva parte ella stessa in gioventù e beltà.  Potremmo definirla una catena indissolubile della disperazione. E Silvio Orlando conduce prudentemente per mano lo spettatore in quel piccolo, delicato mondo vissuto con gli occhi, con il cuore, con le paure di questo minuto diseredato, proprio come fa Nadine – personaggio incautamente risolutivo, che con uno scossone drammaturgico darà una svolta definitiva alla vita del tenero protagonista – con il piccolo Momò, portandolo a prendere un gigantesco gelato alla vaniglia.  Alla fine ci sarà sempre per ognuno di noi un grosso gelato alla vaniglia, a sostenerci in vita. E ci si lascia accompagnare volentieri seppur con un briciolo di vergogna, di pudore. Vengono in luce tutte le nostre manchevolezze, le nostre responsabilità di uomini nei confronti dell’infanzia.

Se ne Il nipote di Rameau, precedente regia di Orlando, la musica eseguita dal vivo in scena, presente in forma di spinetta, era quasi inevitabile ricreare con uno strumento d’epoca, un’atmosfera consona che dialogasse con la drammaturgia di Diderot, ne La vita davanti a sé quella musica di accompagnamento diventa co-protagonista con il racconto – ed i musicisti in scena, quattro per l’esattezza, ben assortiti: Roby Avena, Leonardo Enrici Baion, CheikhFall capitanati da Simone Campa che ne cura la direzione – interpunta le stazioni di questa laica via crucis, ricercandone una propria identità fino a diventarne in maggior peso, quasi indispensabile. Un insolito melologo dalle pieghe arabeggianti. La scena invece, come è capitato nei precedenti allestimenti prodotti da la Compagnia del Cardellino, è di Roberto Crea, costituita da un enorme, incombente, totemico elemento che prende ispirazione dai prefabbricati dell’Hangar Bicocca di Anselm Kiefer per poi distaccarsene in una impalpabilità monocromatica, quasi Chagalliana. Che dire infine della bravura dell’attore napoletano, che con candore, stupore, intessendo con altrettanta potenza espressiva ancora una volta, reca un nuovo regalo ai suoi spettatori, spiazzandoci ancora una volta con le sue sorprendenti scelte artistiche, inaspettate, coraggiose, imprevedibili! E non solo, l’attore fa di più, per dovere di fedeltà al racconto, nel lavoro di riscrittura, invece di tessere un unico filo narrativo si sdoppia sapientemente e costantemente in quel mondo circostante di siffatto essere indifeso, il piccolo Momò, preoccupato solo inseguire un amore materno. Amore sempre ricercato e mai trovato, negato fin dalla nascita, ma forse anche per lui alla fine di tante sofferenze, alla fine di tanto girovagare, ci potrà essere quel gelato alla vaniglia che tutto allevierà.


La foto accanto al titolo è di Gianni Biccari.

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